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Chiudere! E chiuderemo. Cambiano i governi, ma l’abuso dei Dpcm e restrizioni insensate restano

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Non c’è molto da dire su quest’ultimo Dpcm, ma qualcosa vale la pena di annotarla. Cambiano i governi, ma forme e sostanza della gestione dell’emergenza Covid restano. A cambiare (per ora) sono le virgole e lo stile…

Va detto, come attenuante, che il presidente Mario Draghi eredita una situazione quasi del tutto compromessa dopo un anno di gestione fallimentare e schizofrenica dell’emergenza Covid. Non esiste, in effetti, una bacchetta magica con la quale rafforzare ora, in poco tempo, il sistema sanitario come non è stato fatto nei dieci mesi precedenti, o riorganizzare la scuola e i trasporti pubblici – insomma, per fare tutte quelle cose che il governo precedente avrebbe dovuto fare per non scaricare i costi umani ed economici dell’emergenza solo sui cittadini e sulle imprese.

Più volte in questi mesi, su Atlantico Quotidiano, abbiamo denunciato come la macchina statale non sia mai davvero entrata in “modalità emergenza”, se non per quanto riguarda, appunto, chiusure e controlli. Non abbiamo fin qui assistito ad alcuna mobilitazione eccezionale, da conflitto bellico per intenderci. Basti pensare al fallimento dei tracciamenti a nemmeno due settimane dall’inizio della seconda ondata, all’assenza della medicina territoriale, al mancato rafforzamento del fronte sanitario (personale e terapie intensive) e della ricerca; e infine ai primi incerti e mezzi passi della campagna vaccinale. Il lockdown ad intensità variabile è stato l’unica strategia perseguita, l’unica “logica emergenziale” praticata.

Ora, l’unica alternativa a questo vicolo cieco di chiusure in cui ci hanno infilati è obiettivamente la campagna di vaccinazione. E infatti è proprio in questo ambito che sono arrivati i primi e per ora unici segnali di discontinuità: la sostituzione di Domenico Arcuri con un generale degli Alpini, capo della logistica militare, come commissario per l’emergenza Covid. Il minimo della decenza, bisogna dirlo. Ma che mostra, almeno, la consapevolezza a Palazzo Chigi che a questo punto la partita si gioca sui vaccini e non si può perdere: prima la campagna vaccinale decolla, prima si potrà riaprire.

Ci auguriamo che il piano non sia quello di riaprire solo quando saranno vaccinati tutti o quasi gli italiani, perché dubitiamo che basti tutto il 2021, ma che ci si accontenti di aver vaccinato le persone più a rischio, per età e patologie, per arrivare all’inizio dell’estate con un Paese sostanzialmente aperto. Purtroppo, su questo non abbiamo ancora ascoltato propositi chiari e non ce la sentiamo di scommettere che verrà intrapresa la via più ragionevole.

Vogliamo anche dire che tra le discontinuità c’è una comunicazione meno caotica? Sì e no. Più sobria certamente, non c’è più una sovraesposizione ansiogena del presidente del Consiglio, ma c’è sempre una pletora di consulenti, di virologi e scienziati che continuano a straparlare a vario titolo e a fare terrorismo.

Continuiamo a ritenere indispensabile una netta discontinuità rispetto al Conte 2 in almeno tre ambiti: il superamento dell’architrave giuridico emergenziale messo su dal precedente governo (lo schema Dpcm-Parlamento “edotto”), uno strappo costituzionale, un vero e proprio pericolo per la democrazia e le nostre libertà, ed un moltiplicatore di caos normativo; la revoca almeno delle restrizioni più insensate (se è ancora presto per un piano di riaperture); tempestività, organicità e consistenza delle misure di sostegno delle attività produttive colpite dalla crisi.

In tutti e tre questi ambiti, purtroppo, i segnali sono tutt’altro che incoraggianti.

Nella forma, si prosegue a colpi di Dpcm, pur avendo questo governo una maggioranza letteralmente bulgara in Parlamento, tale da non poter/dover temere conversioni di decreti e altri passaggi parlamentari. E in questo specifico caso i tempi per coinvolgere le Camere ci sarebbero stati. Che i Dpcm siano comunicati meglio e con maggiore anticipo (stavolta 4 giorni prima anziché poche ore) appare un dettaglio di fronte alla questione giuridica e democratica. Se poi, com’è stato ventilato, le elezioni amministrative previste a primavera verranno rinviate, allora il quadro per la nostra democrazia è destinato a farsi ancora più fosco…

Nella sostanza, per il periodo dal 6 marzo al 6 aprile è stato adottato un regime complessivamente ancora più restrittivo del precedente, con la conferma delle restrizioni più insensate, la prospettiva di nuove chiusure delle scuole e l’aggravante di qualche concessione che appare politicamente modulata.

Non abbiamo potuto fare a meno di notare, infatti, il piccolo segnale positivo per il settore cultura/spettacolo, la riapertura dal 27 marzo, weekend compresi, per musei, teatri e cinema (benissimo!), mentre prosegue il vero e proprio accanimento contro bar e ristoranti, montagna, palestre e piscine, centri commerciali e parrucchieri. Siamo forse troppo maliziosi, ma alcuni dei settori vicini alla sinistra vengono trattati leggermente meglio in questo Dpcm rispetto ad alcuni vicini al centrodestra.

Restiamo in attesa di capire: se un cinema può ospitare 200 spettatori su 800 posti per due ore, perché un ristoratore non potrebbe ospitare la sera due turni di 20 clienti su 80 coperti? E se un museo può accogliere visitatori contingentati nel weekend, perché non un centro commerciale?

Con i centri commerciali chiusi nel weekend, i ristoranti chiusi a cena tutta la settimana, palestre e piscine chiuse, non sorprendiamoci poi se le persone si riversano tutte il sabato a pranzo negli stessi posti. Restiamo dell’idea che queste chiusure a metà siano non solo insensate ma controproducenti, creano più assembramenti. Forse non ovunque, ma così ci pare nelle grandi città.

Poi, nel frattempo, porti aperti e flusso continuo di immigrati irregolari positivi al Covid (importando chissà quali varianti…). Questa è l’unica “normalità” che né la pandemia né i lockdown sono riusciti mai a scalfire.

Ultimo aspetto nel quale non vediamo segnali incoraggianti è quello del sostegno all’economia. Il decreto cambia nome (da “Decreto Ristori” a “Decreto Sostegno”), forse si riesce a superare lo schema dei codici Ateco e a prevedere un orizzonte più lungo per la cassa integrazione Covid (fino a fine anno), ma su questo fronte la vera incognita è l’idea, già abbozzata dall’ex ministro Gualtieri e fatta propria dal premier Draghi, di “non aiutare tutti”, di ristori “selettivi”, solo alle imprese ritenute “vitali”, cioè quelle che andavano bene prima che scoppiasse la pandemia e che avranno un futuro anche dopo. Ma come può un governo (su quali basi, secondo quali criteri?) giudicare se un’attività economica possa o meno riprendersi dalla pandemia. Chi lo decide se può tornare a essere “vitale”? Qualche politburo a Roma o a Bruxelles? E quando? Prima o dopo aver vaccinato la popolazione e aver riaperto il Paese? Prima o dopo essere stata indennizzata?

Questa idea potrebbe prendere corpo già nel decreto in via di definizione. Secondo le prime indiscrezioni, alcuni settori tornerebbero a un regime ordinario di ammortizzatori, ma senza la possibilità di licenziare, e non tutti riceveranno “ristori” sotto forma di assegni a fondo perduto. Le perdite registrate nel 2020 rispetto al 2019 dovranno essere pari ad almeno il 33 per cento. E chi ha perso il 32? Niente? E quale percentuale della perdita verrà indennizzata?

In teoria, l’idea di “sostenere con denaro pubblico le imprese che sono in grado di creare ricchezza” sembra molto sensata, ma in pratica chi decide quali imprese aiutare, perché “sono in grado di creare ricchezza”, e quali lasciar morire, se la pandemia ha messo in ginocchio interi settori e il governo li ha addirittura chiusi d’imperio? Sarebbe ora che si facesse qualche esempio, per capire…

Infine, la nota dolente delle scadenze fiscali. Seppure in modo graduale, così dicono, sarebbe alla fine partito l’invio di 35 milioni di cartelle e di 15 milioni di accertamenti, che dovrebbe venire spalmato nell’arco di due anni. Ma quel qualcuno da cui bisognerà pur cominciare?