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Cinquant’anni dello Statuto dei lavoratori: un testo oggi usurato dal tempo, che portò la Costituzione in fabbrica

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È possibile che in tanto trambusto, causato dall’apertura della fase due, dopo un lockdown prolungatosi per un periodo interminabile, venga ricordato con meno clamore il cinquantenario dello Statuto dei lavoratori destinato a compiersi questo 20 maggio, visto il rinvio del ricco programma di incontri, dibattiti, convegni. Certo è un tempo lungo per un testo usurato dal tempo, solo gli anziani conservano un ricordo personale di quello che, almeno fino al nuovo secolo, è stato considerato il nocciolo duro di un nuovo diritto del lavoro, tutto all’insegna del nostro testo costituzionale.

Non era nato all’improvviso, perché di uno Statuto aveva avuto modo di parlare Di Vittorio, al congresso della Cgil del 1952, se pur secondo l’indirizzo proprio della sua confederazione, limitato al riconoscimento dei diritti di libertà di opinione, riunione, propaganda all’interno dei cancelli della fabbrica, dove i lavoratori erano costretti a svestire gli abiti di cittadini per assumere quelli di servizievoli collaboratori. Il discorso era destinato a rimanere a lungo senza riscontro, tenuto vivo da un settore stretto intorno alla Rivista giuridica del lavoro di ispirazione cigiellina. Ma nel corso del tempo ne venne a maturazione un altro, relativo all’incardinamento del sindacato nei luoghi di lavoro, dotandolo di supporti operativi, che trovò appoggio in una Cisl, che, nel corso di un tempo breve, si era convertita da un deciso astensionismo legislativo – tanto da vivere non favorevolmente il passaggio della legge 604/1966 sui licenziamenti individuali – ad un appoggio convinto ad un intervento di supporto della presenza ed iniziativa sindacale nelle realtà produttive.

Due anime distinte, che, secondo la lezione allora corrente, vennero denominate, rispettivamente, come “costituzionale” e “promozionale”; ma, per così dire, interconnesse, perché se la prima puntava ad assicurare i diritti individuali costituzionali, riaffermandoli e accompagnandoli con strumenti sanzionatori; la seconda, almeno secondo la versione di chi se faceva fautore, era destinata ad accompagnare la garanzia legale di tali diritti con quella effettuale della presenza sindacale. Ma certo occorreva maturasse una congiuntura politica favorevole, quale fu data dal secondo centro-sinistra, con a ministro del lavoro un personaggio che oggi verrebbe da definire di altri tempi, Giacomo Brodolini, un socialista di ferro, che assunse in proprio l’impegno, incaricando un giovane professore Gino Giugni di formare una commissione, per redigere un testo che coniugasse entrambe le anime. Non visse abbastanza per seguirne il corso parlamentare, che si svolse nel passaggio dal decennio ’60 al decennio ’70, con un vivace dibattito nella Commissione lavoro e nell’aula del Senato che lo ampliò e lo modificò, senza, peraltro, tradirne l’impianto e lo spirito; fu passato con l’astensione di Pci e Psiup, per poi giungere alla Camera del tutto blindato, sì da essere varato in via definitiva, sempre con l’astensione della sinistra di allora.

Per capire l’itinerario e il contenuto finale dello Statuto occorre richiamare il clima di quel passaggio di decennio, di cui rimane un lontano eco nel mito dell’autunno caldo del ’69, che, però, fu al tempo stesso anche il tempo dell’attentato alla Banca dell’agricoltura. Sicché gli anni ’70 avrebbero visto insieme il fiorire della giurisprudenza dei pretori di assalto, intesa a dar vita propria allo Statuto e il deflagrare del terrorismo nero e rosso. Ci fu proprio in quel torno di tempo, grosso modo dal ’68 al ’71 e oltre, un crescendo conflittuale, che dall’antiautoritarismo degli studenti universitari si era esteso – nell’ambito di un rinnovo contrattuale del tutto innovativo, aumento salariale uguale per tutti e inquadramento professionale unico – al tentativo di instaurare un vero e proprio contro-potere vis-à-vis del potere padronale. E qui fu proprio l’anima promozionale ad entrare in gioco, perché l’intenzione governativa era proprio quella di renderla selettiva, cioè a favore delle tre grandi confederazioni, considerate ipso facto maggiormente rappresentative. Ad esse sarebbe toccato – attraverso una presenza diffusa alla base, che si estendesse al di là delle grandi fabbriche altamente sindacalizzate – raccogliere, uniformare, rendere negoziabili le spinte dal basso, indirizzandole verso le grandi riforme, casa, sanità, pensioni.

Non senza un cospicuo vantaggio per il governo, che, eletto a interlocutore delle confederazioni nella stagione che fu battezzata come quella della “supplenza sindacale”, ne riusciva legittimato e rafforzato a scapito dei partiti dell’opposizione. Ovvio che questo non fosse facile da mandar giù dal Pci che vedeva proprio nell’anima promozionale, così come congegnata nello Statuto in gestazione, una duplice sfida: la conferma di una ormai consolidata completa autonomia della Cgil, con buona pace non solo della anacronistica funzione di “cinghia di trasmissione”, ma anche di una influenza significativa. Questa, però, non era la cosa di per sé più rilevante – già emersa pubblicamente nella diversa valutazione della rivolta ungherese, di approvazione per il Pci e di condanna per la Cgil; lo era, se collegata alla presenza esclusiva nei luoghi di lavoro assicurata alle confederazioni, ma non ai partiti, così tagliati fuori da contatti diretti coi loro elettori tradizionali, gli operai.

Dunque, la costante dell’opposizione di sinistra fu di valorizzare l’iniziativa autonoma dei lavoratori, sì che potessero esprimersi attraverso lo strumento principe dell’assemblea, fuori da ogni tutela confederale, secondo una duplice finalità: una più radicale, di dar corda ad una protesta anticapitalista in crescita, senza lasciarla imbrigliare in formule organizzative predeterminate; una meno, di permettere anche la presenza dei partiti.

Ho parlato di un testo usurato dal tempo. Certo amputato degli articoli portanti delle due anime. Si può dire che l’articolo sulla reintegrazione sul posto di lavoro risulterà quello qualificante dell’anima costituzionale dello Statuto, rappresentata nei Titoli I e II, quale garanzia effettiva della dote protettiva ivi messa a regime, tanto da essere esposto ad un continuo attacco, peraltro destinato all’insuccesso per circa un quarantennio. Bisognerà attendere il secondo decennio del nuovo secolo, per vederlo progressivamente svuotato in un quadro ordinamentale ormai post-statutario, culminato nel Jobs Act, con una conseguente ricaduta negativa su quell’anima, fino ad essere considerata, da una nutrita opinione critica non solo di sinistra, un’ombra di quel che è stata.

Se per l’articolo principale dell’anima costituzionale, sulla reintegra, occorrerà più di un quarantennio perché venga svuotato dal Jobs Act, con un riflesso negativo sulla effettività della rete di protezione creata dai Titoli I e II; per l’articolo portante dell’anima promozionale, sulla costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali, basterà un quarto di secolo perché venga amputato da un referendum abrogativo, con un oscuramento del progetto originario; anche se le confederazioni, estromesse come tali, conserveranno il diritto costituire rappresentanze sindacali aziendali tramite le loro federazioni, in forza del criterio originariamente previsto per i sindacati autonomi, di aver firmato contratti collettivi applicabili nelle unità produttive di riferimento, non senza un lungo strascico interpretativo da parte del Giudice delle leggi.

Dunque, c’era una volta lo Statuto dei lavoratori? No, è rimasto se pur depauperato del suo contenuto dirompente. Ma questo non ci racconta tutto, perché un fatto storico va soppesato e valutato in ragione del suo impatto, come è venuto a cambiare il contesto su cui ha inciso. E qui, lo spettatore di ieri può dare atto che il clima stesso del lavoro subordinato cambiò, non solo sulla carta, ma anche e soprattutto nella quotidiana realtà, dove la cittadinanza dei lavoratori venne riconosciuta, sia pur nei modi e termini compatibili con l’attività produttiva. Se vogliamo è stata una grande opera di civilizzazione, cui hanno dato mano la giurisprudenza, la dottrina, la grande stampa, la politica, l’azione sindacale, e perché no, anche l’impresa; sicché alla fine l’ambiziosa scommessa di introdurre la costituzione in fabbrica, con a garante una forte presenza sindacale, è stata vinta come convinzione diffusa e radicata, anche se non realizzata sempre e comunque.

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