Da esperto in materie giuridiche mi permetto di dire la mia nel dibattito sul cosiddetto ius soli, dal momento che ormai la nostra “intellighenzia” pare abbia preso l’andazzo di straparlare di cose che non conosce. Sono un insegnante di diritto da trent’anni nelle scuole statali e ritengo l’attuale normativa sull’acquisto della cittadinanza italiana, tutto sommato, abbastanza sensata. Da noi si diventa cittadini soprattutto “ius sanguinis”, ossia dai propri genitori, anche se si nasce all’estero. I figli dei cittadini italiani (e basta che uno solo dei genitori lo sia per diventarlo) entrano a far parte della “Comunità-Stato-Italia” anche se nascono in Australia; non solo, ma ne rimangono parte integrante anche se si trasferiscono all’estero: ci sono dodici deputati e sei senatori che vengono eletti dai cittadini italiani residenti all’estero (la cosiddetta Circoscrizione Estero). Già questo dovrebbe far capire che l’appartenenza allo Stato (tale è la cittadinanza) non è necessariamente legata alla permanenza di fatto sul territorio dello Stato stesso. Infatti, viene concepita come un legame che comprende anche l’aspetto culturale e, vivaddio, relazionale, umano (l’educazione in famiglia).
Ma lo “ius sanguinis” già oggi non è l’unico modo per acquistare la cittadinanza, come si vuole far credere in certi video della sinistra “intellettuale” (come quello di Raiplay); in realtà, esiste già uno “ius soli” nell’ordinamento giuridico italiano, solo che esso viene limitato a due casi molto rari: se il bambino nasce sul territorio italiano da genitori ignoti oppure apolidi, cioè nei casi in cui non sia possibile identificare i genitori, o perché sconosciuti o perché non hanno a loro volta alcuna cittadinanza. Dirò di più: non molti sanno che diventa cittadino italiano anche il bambino adottato, sempre nell’ottica che di regola sono i genitori a trasmettere la cittadinanza (e quindi lo fanno anche i genitori adottivi), come lo diventa anche il ragazzo minorenne se i suoi genitori ottengono la cittadinanza italiana su richiesta, ossia per naturalizzazione. Ciò significa che, se i genitori stranieri ottengono la cittadinanza italiana, questa si comunica anche ai loro figli minorenni.
La stragrande maggioranza dei miei studenti di nazionalità egiziana e marocchina, per esempio, sono cittadini italiani in quanto hanno acquistato la cittadinanza “ius sanguinis” da propri genitori. I quali a loro volta l’anno ottenuta presentando domanda dopo dieci anni di residenza continuativa (anche se magari devono aspettare anni perché la domanda sia accolta, ma questo è un problema di inefficienza amministrativa). A questo proposito, è interessante confrontare la normativa italiana con quella dei principali stati dell’Unione europea: Francia e Regno Unito chiedono cinque anni di residenza, la Germania otto, la Spagna dieci, che diventano però cinque per i rifugiati politici. L’Italia si pone perciò, in questo caso, come il Paese più esigente, ma ciò potrebbe essere dovuto anche al fatto che noi non siamo uno Stato che ha avuto una massiccia immigrazione dalle ex colonie, come la Francia e il Regno Unito, e nemmeno forti ondate migratorie dalla Turchia, come la Germania. Continuando sui modi di acquisto della cittadinanza, dobbiamo accennare anche al matrimonio (occorrono due anni di residenza se il coniuge straniero era già residente in Italia e tre se non lo era). Con il matrimonio, perciò, si ottiene la cittadinanza in maniera abbastanza veloce, per gli “standard” della burocrazia italiana. E quindi si è diffuso il fenomeno dei matrimoni “combinati” (celebrati, ovviamente, in Comune), che vedono spesso un uomo aitante straniero maritarsi con una donna italiana non particolarmente attraente.
Ma vogliamo parlare della Francia? Nel Paese della “libertà, uguaglianza e fraternità” non esiste, a dire il vero, un vero e proprio “ius soli”; quello che viene definito una sorta di “doppio ius soli” è la possibilità di diventare cittadino se si nasce sul territorio francese ma non immediatamente, bensì dopo cinque anni. E siccome, per motivi “umanitari”, l’efficientissima amministrazione francese registra anche i figli degli irregolari, questo accade anche se appunto il bambino è figlio di “migranti”. La conseguenza è che, ad esempio, molte donne africane vanno a partorire nell’isola di Mayotte, vicino a la Comore, perché quell’isola è territorio francese. Dopodiché diventa cittadina francese anche la madre del pargolo. Questo è solo uno dei casi nei quali si può acquistare la cittadinanza francese: nella Francia di Macron vige al riguardo una normativa che definire “caotica” è dire poco e che è il risultato di continui cambiamenti effettuati per motivi politici. Ma è sempre per motivi politici che si vorrebbe introdurre lo “ius soli” in Italia: infatti il Partito democratico, Italia Viva (e adesso anche “Azione”) vivono nell’illusione che tutti gli stranieri, una volta diventati cittadini italiani, li voterebbero.
Ad ogni modo, negli altri Stati europei l’acquisto della cittadinanza è regolato da modalità abbastanza simili a quelle dell’Italia, e le differenze sono motivate soprattutto dall’esistenza delle ex colonie (come per il Regno Unito) o dei “territori d’oltremare” (come la Francia). Noi che, pur avendo formalmente vinto anche la Seconda Guerra Mondiale siamo stati trattati come se l’avessimo persa, non abbiamo più nulla di tutto ciò e quindi non abbiamo i problemi dei Paesi che a tutt’oggi mantengono, contro ogni rispetto dell’autodeterminazione dei popoli, territori in America, Africa e Asia.
In conclusione, ritengo insopportabile sentire i cosiddetti opinion makers fare continuamente riferimento agli Stati Uniti d’America. Una nazione che si è costituita in base ad ondate migratorie e continua ad esserne soggetta (si pensi che la popolazione degli Stati Uniti è aumentata, negli ultimi trent’anni, di circa 120 milioni di persone) non può essere paragonata ai Paesi europei. Gli Stati dell’Ue hanno una storia completamente differente ed è per questa ragione che prediligono la trasmissione della cittadinanza dai genitori o su richiesta dell’interessato.