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Colpire i ricchi finisce per colpire tutti: il piano Biden e l’eterna ossessione della sinistra

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È questione di tempo, ma ormai l’immenso piano economico di Joe Biden sembra essere pronto per ottenere l’approvazione finale del Congresso. Il presidente è convinto che il suo programma da 1,75 trilioni di dollari, ridotto rispetto all’originale da 3,5 trilioni, manterrà l’economia americana al passo con i tempi, in termini di infrastrutture, transizione ecologica e spesa sociale. Al cuore di questa agenda vi sono aumenti di spesa che imbarazzerebbero anche i suoi illustri predecessori. D’altronde, Biden non vuole essere secondo agli idoli della sinistra come Franklin Delano Roosevelt e Lyndon Johnson.

Vista la recente sconfitta elettorale in Virginia e la vittoria risicata in New Jersey, è più che mai cruciale per la Casa Bianca assicurarsi il passaggio del proprio piano economico. Il presidente rischia però di arenarsi su welfare e tasse, dove oltre all’opposizione repubblicana si sono aggiunte le posizioni scettiche dei senatori moderati Joe Manchin e Kyrsten Sinema. Come è noto, al Senato è fondamentale per Biden avere una maggioranza unita, avendo numeri estremamente risicati.

Il cuore del suo piano rivela le più grandi fandonie da cui la sinistra non riesce ancora a staccarsi. È chiaro infatti che per sostenere il bazooka di spesa federale ci si accanirà sul famigerato 1 per cento. A fianco della tassa minima globale del 15 per cento per le multinazionali, la proposta prevede una sovrattassa del 5 per cento per i redditi superiori a 10 milioni di dollari, a cui se ne aggiunge una ulteriore del 3 per cento per i redditi sopra i 25 milioni.

Sembrerà ripetitivo, ma è doveroso ricordare che colpire i ricchi non funziona e porta con sé effetti negativi all’economia nel suo complesso e a chi sarebbe teoricamente escluso da tale manovra punitiva. Non sorprende che questa logica sia estranea a chi, un anno fa, ha scelto Biden pensando che gli aumenti alle fasce più alte siano totalmente scollegati dal resto del sistema. Quello dell’accanimento fiscale è un mantra noto anche alla sinistra di casa nostra, che certamente guarderà con ammirazione alla direzione intrapresa da Biden. Purtroppo per loro, l’evidenza storica mostra chiaramente il fallimento di politiche economiche di questo tipo. I Democratici sostengono fieramente che l’economia cresca di più a seguito di aumenti fiscali, prendendo come esempio il primo mandato di Bill Clinton, dove l’aliquota massima sui redditi salì dal 31 al 39,6 per cento. Per la verità, la crescita (2,6 per cento) fu molto minore rispetto a quella del decennio precedente (3,2 per cento). Il vero boom arrivò infatti nel secondo mandato, quando Clinton cambiò rotta e approvò tagli sia alla spesa che alle tasse sui capital gains.

Per fare ordine, vi sono tre grandi ragioni per cui l’accanimento sui miliardari sia altamente controproducente. Per prima cosa sfugge il fatto che, da sempre, i grandi detentori di capitale sappiano perfettamente come aggirare questi oneri, inoltrandosi nei cavilli dei provvedimenti. Di conseguenza, non resterà che alle fasce medie e basse colmare quel vuoto fiscale lasciato dai cosiddetti ricchi, caricandosi sulle spalle il fardello delle spese irresponsabili della politica. E lo ricorda bene Charles Adams del Mises Institute: 

“The rich have always had the wherewithal to avoid excessive taxation. They just rearrange their affairs to avoid taxation, something the middle classes are not able to do”. 

Il secondo punto da chiarire riguarda l’eterna convinzione per cui i guadagni dei ricchi svantaggino i meno abbienti. Nulla è più lontano dalla realtà di questo gioco a somma zero. Se guardiamo ai dati degli ultimi decenni notiamo che, con l’aumentare della ricchezza complessiva, si è ridotta esponenzialmente la povertà assoluta. Laddove i ricchi sono diventati più ricchi, i poveri sono diventati meno poveri. Piuttosto che focalizzarsi solamente sui vantaggi immediati per alcuni o sulla disuguaglianza, si dovrebbero considerare i benefici complessivi prodotti per tutti. Come al solito, per dirla con Bastiat, si ignora ciò che non si vede, rimanendo ancorati all’idea che qualcuno sia sempre destinato a rimetterci. Quell’assurda equazione per cui all’acquisizione di ricchezza individuale debba necessariamente corrispondere un impoverimento per il resto del mondo. Sempre riprendendo il Mises Institute,  

[…] The fact that “the rich” might also gain does not alter those good consequences for others. The gains for the average worker are always underestimated or even ignored. 

La terza grande illusione è, ça va sans dire, quella redistributiva. Confiscando una quota maggiore di denaro all’avido 1 per cento, lo Stato non aiuterà chi è in difficoltà e difficilmente migliorerà la qualità dei servizi pubblici. Non è altro che un trasferimento di potere dall’individuo allo Stato, piuttosto che un passaggio di denaro dai più abbienti ai più bisognosi, come ricordava Bertrand De Jouvenel. È poi Milton Friedman a rammentarci come questo sia un ulteriore modo per alimentare il clientelismo pubblico e le agenzie burocratiche atte a gestire denaro non proprio, senza preoccuparsi di come verrà speso, dove arriverà o a chi verrà destinato.

Resta da chiarire perché diversi colossi della ricchezza mondiale siano orgogliosi di lasciare una fetta maggiore del proprio reddito alle casse del Governo. Come abbiamo suggerito in precedenza, il big business sa perfettamente come aggirare le leggi e dunque non si preoccupa se Biden aumenterà le sue imposte. È qui che si comprende perché, per esempio, i giganti della Silicon Valley o alcuni tra gli individui più ricchi al mondo sostengano da tempo i Democratici.

È la grande ipocrisia per cui essi approvano maggiori tasse sapendo che riusciranno ad evitarle e a ricevere trattamenti speciali dal governo, facilitati da quelle regolamentazioni che caratterizzano l’incestuosa collusione del crony capitalism. E nel frattempo, a pagarne il prezzo in termini di fisco e competitività, sono tutti gli altri. Dalle imprese piccole, medie o grandi che fanno da sé sul mercato, fino ad arrivare ai singoli cittadini della classe medio-bassa a cui in campagna elettorale è stato detto che gli aumenti fiscali per i miliardari non li avrebbero minimamente sfiorati.