Tutti contro l’America “protezionista” di Donald Trump i principali leader europei, sotto le mentite spoglie di campioni del libero commercio, per compiacere i mainstream media e la platea del World Economic Forum, il Gotha finanziario globale riunito a Davos, in Svizzera. Pur sapendo che le cose stanno molto diversamente.
Questa contrapposizione tra gli Stati Uniti da una parte, divenuti improvvisamente protezionisti sotto la presidenza Trump, e dall’altra un’Europa e – ancora più assurdo – una Cina campioni del libero commercio, semplicemente non esiste, è un’invenzione. È il frutto avvelenato della narrazione e delle analisi superficiali e biased dei mainstream media e dei cosiddetti “esperti”.
Prendiamo i dazi recentemente imposti dall’amministrazione Trump sull’importazione dei pannelli solari prodotti in Cina, proprio a pochi giorni dall’appuntamento di Davos, che sono apparsi come la conferma del teorema e gli sono valsi le “lezioni della storia” impartite dalla signora Merkel e le prediche degli altri leader europei. Ebbene, pochi sanno forse che gli stessi pannelli dal 2013 sono soggetti in Europa a dazi antidumping fino al 64,9 per cento. Solo di recente, nel settembre scorso, l’Ue ha annunciato una loro progressiva riduzione, accolta favorevolmente da Pechino. Avete sentito o letto qualcuno scandalizzarsi? E chi ha più contribuito a sabotare e affondare il TTIP, l’accordo di libero scambio Usa-Ue, ben prima dell’avvento di Donald Trump, se non Francia, Germania e Italia?
È un’Europa a cui la competizione fa orrore, quando non è congeniale al suo modello economico e sociale. Non solo l’apertura commerciale, la globalizzazione presuppone anche di accettare il principio di competizione tra nazioni per attrarre investimenti. Ma non per il presidente francese Macron, che sempre a Davos ha detto che “la corsa al ribasso sulle tasse non è la risposta giusta alla globalizzazione”. Si capisce che la competizione fiscale – dall’esterno e al proprio interno – spaventi l’Europa a elevato debito, elevata spesa pubblica, ed elevata pressione fiscale… Ma che idea è questa della globalizzazione, presa per un menu “à la carte”? E basta la vicenda Fincantieri-Stx a ricordarci che i Paesi Ue non si fidano nemmeno tra di loro…
Nell’Indice della libertà economica elaborato ogni anno da Wall Street Journal e Heritage Foundation gli Stati Uniti sono all’undicesimo posto, la Germania è al sedicesimo, la Francia al 73esimo e l’Italia all’80esimo posto. La Cina? Al 139esimo posto (tra i paesi “non liberi”) su 178 paesi.
Fino al 20 gennaio 2017, giorno dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, gli Stati Uniti sono stati il paese che più di ogni altro ha aperto in modo incondizionato i suoi mercati al mondo, dando una spinta decisiva alla globalizzazione. Apertura di cui hanno tratto maggior vantaggio relativo le economie dei paesi emergenti. Ed è vero che Trump è intenzionato a riequilibrare la bilancia commerciale Usa. Basta con l’apertura incondizionata, la politica commerciale americana dell’era Trump sarà all’insegna della “reciprocità”. Ma reciprocità è anche la parola chiave delle politiche commerciali europee.
L’intervento spiazzante di Trump a Davos ha travolto l’ipocrisia europea. Spiazzante, perché con parole chiare, dirette e al tempo stesso ragionevoli, quando tutti si aspettavano le sue “sparate”, ha fatto finire in fuori gioco il doppio standard dei leader europei, che predicano bene e razzolano male. “America First non significa America Alone”, ha chiarito il presidente. “L’America è aperta al business, abbiamo tagliato le tasse e stiamo tagliando la burocrazia”. “Sosteniamo il libero commercio, ma dev’essere equo e basato sulla reciprocità”. Gli Stati Uniti, ha avvertito, “non tollereranno più pratiche scorrette”. Proprio sul principio di reciprocità insistono sempre di più anche i Paesi Ue contro le politiche predatorie, i furti di proprietà intellettuale, e le barriere soprattutto cinesi.
Esiste un problema protezionismo nel commercio globalizzato di oggi, ma viene dalla Cina e ne sono tutti consapevoli. Tanto consapevoli che Stati Uniti e Unione europea si sono trovati d’accordo nel negare a Pechino lo status di economia di mercato in seno al WTO, che era stato promesso entro il dicembre del 2016. La Cina continua quindi ad essere in ambito WTO un paese di “serie b”, nei cui confronti è possibile adottare tariffe antidumping. Questo perché la realtà ha smentito purtroppo le buone intenzioni (e le pie illusioni) dei fautori (compreso chi scrive) dell’ingresso della Cina nel WTO, nel 2001, che avrebbe dovuto spingere Pechino a compiere la sua transizione verso un’economia di mercato e anche favorire un’apertura del sistema politico. Della seconda non c’è nemmeno da discutere. Ma anche la prima è lungi dal verificarsi. Si può aprire una riflessione laica sull’esperienza della Cina nel WTO?
I dazi non possono rappresentare una soluzione strutturale dal momento che alla lunga, oltre che le tasche dei consumatori danneggiano la produttività e la competitività dei settori dell’economia che si vorrebbero proteggere. Ma possono essere usati – e in alcuni casi “difensivi” sono infatti ammessi dalle regole del WTO – come arma per aprire un negoziato e andare a sanare gli squilibri provocati da pratiche commerciali scorrette. È in quest’ottica che sia l’amministrazione Trump che, come vedremo, anche l’Unione europea si preparano a intraprendere ulteriori iniziative per fronteggiare la concorrenza sleale cinese.
Le doglianze Usa e Ue nei confronti di Pechino sono state messe nero su bianco nel documento finale dell’ultimo G20 di Amburgo, presieduto dalla cancelliera Merkel: la sua eccessiva capacità produttiva di acciaio, il dumping sul costo del lavoro, essendo il mercato cinese ancora lontanissimo dai nostri standard sociali, ambientali e di diritti umani. Ribadito l’impegno per il libero commercio e a “tenere i mercati aperti”, tuttavia di fronte “alle pratiche commerciali scorrette” il documento riconosce “l’uso di strumenti legittimi di difesa commerciale”. Strumenti che non fanno solo parte dell’arsenale negoziale del presidente americano, ma sempre più sono invocati anche dai principali soci del club Ue – Francia, Italia e la stessa Germania.
Ma il nodo che più preoccupa l’Europa, oltre che gli Stati Uniti, è lo shopping cinese di aziende europee ad alto tasso di tecnologia e innovazione, quindi strategiche, a cui non corrisponde un equivalente accesso da parte europea al mercato cinese, ostacolato dalle barriere protezionistiche di Pechino.
Il valore delle acquisizioni di compagnie europee da parte dei cinesi ha raggiunto nel 2016 il valore record di 48 miliardi di dollari (quasi il doppio rispetto al 2015) mentre, a causa delle restrizioni di Pechino nell’accesso ai suoi mercati, quelle europee in Cina sono crollate rispetto al 2013 e nel 2016 si sono fermate intorno al miliardo (dati Dealogic/Wall Street Journal). Secondo stime più caute, il rapporto sarebbe di 4 a 1 (35 miliardi di dollari il valore delle acquisizioni cinesi in Europa, +77% rispetto all’anno precedente, contro gli 8 miliardi da parte europea in Cina, in calo del 23%).
Tuttavia, nonostante le promesse pubbliche, il regime di Pechino in questi anni ha fatto orecchie da mercante e non solo si rifiuta di garantire alle compagnie europee pieno accesso ai suoi mercati, ma di fatto elude anche ogni tentativo di iniziare una discussione vera in proposito. Anzi, secondo un recente studio, per le imprese europee il sistema economico cinese nel suo complesso è peggiorato nel corso degli ultimi anni. Invece di assistere ad una maggiore liberalizzazione, si aggravano le distorsioni provocate dall’intervento pubblico e le imprese europee si scontrano con una sorta di “età dell’oro” per i grandi gruppi cinesi a partecipazione statale. Gli stessi che riempiti di capitali pubblici vengono poi a fare shopping in Europa. Inoltre, con la scusa della cyber-security e del controllo della Rete, alle autorità governative è garantito accesso a dati industriali sensibili e ai progetti ad alta tecnologia delle imprese che operano in Cina. La strategia di Pechino sembra funzionare nell’aiutare le compagnie cinesi a ridurre il gap tecnologico con i concorrenti internazionali e secondo alcuni studi la Cina potrebbe essere in grado di colmare del tutto il gap di innovazione già dal 2020.
In Europa le pressioni per proteggere industrie o settori di rilievo strategico e importanti per gli interessi di sicurezza nazionale si sono fatte sempre più incalzanti alla luce del vero e proprio shopping compulsivo da parte cinese. I governi di Germania, Francia e Italia, cioè gli stessi in prima linea nel bacchettare Trump sul commercio, hanno chiesto alla Commissione europea di considerare un blocco generalizzato delle acquisizioni da parte di investitori non europei di compagnie ad alta innovazione tecnologica. “Siamo preoccupati della mancanza di reciprocità e della possibile svendita delle competenze europee”, hanno scritto i governi di Berlino, Parigi e Roma in una dichiarazione congiunta indirizzata alla Commissione Ue. “Occorre una soluzione europea… una ulteriore protezione”. E la Commissione ha risposto: “L’Europa è aperta al commercio ma deve esserci reciprocità”, ha assicurato Juncker. “Non siamo partigiani naif del libero scambio”. Il piano prevede una versione europea del “Comitato sugli investimenti stranieri” statunitense, che ha il compito di indagare a fondo sugli investimenti stranieri in settori strategici e sensibili dell’economia.
Insomma, la “nuova via della Seta” annunciata in pompa magna da Pechino per espandere il commercio Europa-Cina, e celebrata dalla grande stampa europea come la definitiva adesione del regime cinese al libero mercato in contrapposizione alle presunte chiusure americane, non è che un bluff che non incanta più nessuno.
Ed esattamente come il presidente Trump nei confronti dei principali partner commerciali degli Stati Uniti, anche l’Unione europea sta agitando la minaccia di un mercato europeo più protetto per convincere i leader cinesi ad aprire davvero il loro. D’altra parte, se è vero come sostengono Stati Uniti ed Europa che la Cina non può ancora essere considerata un’economia di libero mercato, come può esserci un “fair trade”, una competizione leale e corretta? Se si ammette questo, tutto il dibattito sulla globalizzazione e le sue distorsioni prende un’altra piega, facendo apparire un po’ meno “liberale” chi la difende a spada tratta e un po’ meno “illiberali” coloro che parlano di riequilibrio e reciprocità.