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Con il blocco dei licenziamenti realizzato il sogno perverso della sinistra, ma a che prezzo?

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Se volessimo scavare nelle fantasie più recondite dei sovietici all’italiana, sicuramente potremmo rinvenire traccia dell’idea che da anni è stata in grado di tenere banco nelle varie anime della sinistra: l’articolo 18, la tutela dei licenziamenti. Il tavarish nostrano si è interrogato a lungo sulle ragioni in virtù delle quali l’ordinamento giuridico italiano riconosca alle aziende la possibilità di licenziare, quasi a voler considerare la cessazione di un posto di lavoro una vera e propria colpa: e via allora all’intellighenzia più alta e somma, che sia istituzionale, politica o sindacale poco conta, che in modo pressoché unanime si è prodigata verso il nemico del proletariato: l’imprenditore che licenzia.

Non possiamo, non dobbiamo, non vogliamo. Dicono loro.

La normativa emergenziale è entrata a gamba tesa ed ha realizzato quel sogno perverso della sinistra radicale, che non riesce ancora oggi a capire dove si nasconda il fondamento di tale aberrante potere datoriale. Come, dove e perché?

Non è difficile, eppure. Il segreto è in quella Carta Costituzionale che viene sempre richiamata come “la più bella del mondo” salvo poi dimenticarne il contenuto, i principi fondamentali e ispiratori, ma soprattutto fingendo di non comprendere come la stessa sia collocata al vertice della gerarchia delle fonti del diritto – con qualche legittima intrusione europea. È proprio lì il nemico numero uno dei cosacchi all’amatriciana.

Dunque, il licenziamento. Tutelato dall’articolo 41, ovvero la libertà di iniziativa economica privata, e rafforzato dall’articolo 42, a proposito della proprietà privata – colpita a più non posso in ogni sua forma, anche quella dei mezzi e strumenti di impresa – il licenziamento è stato oggetto di un intervento tanto minuzioso e specifico, quanto poco convincente: dal 17 marzo dello scorso anno, ovvero da quando entrò in vigore il Decreto Cura Italia, i licenziamenti sono vietati, salvo qualche rara eccezione, con l’intento dichiarato di “salvaguardare i posti di lavoro” messi a repentaglio dalla crisi economica, indubbiamente innescata dalla gestione della pandemia.

Il termine è stato oramai prorogato alla fine del mese di ottobre. Non vi è alcun precedente in Italia, e non vi sono casi simili né nei Paesi Ue che extra continente: nessun divieto in Francia, Germania e Olanda, Paesi nei quali vige una marcata legislazione sociale ove è stato previsto unicamente un irrobustimento delle misure di sostegno al reddito. Stessa sorte anche in Gran Bretagna, Paese a tradizione liberista, ove restano in vigore le ordinarie norme sulla motivazione dei licenziamenti, mentre risulta introdotto un limite solo in Spagna, che stabilisce il divieto per i 6 mesi successivi alla fruizione di un ammortizzatore sociale. Nemmeno l’ombra di un divieto negli Stati Uniti, ma non c’era dubbio.

La questione, pertanto, non quadra in nessun modo. Si assiste ad una vera e propria espropriazione forzata dei mezzi finanziari delle imprese che, nell’impossibilità di licenziare o comunque riorganizzare la propria attività, finiscono per farsi involontariamente carico del peso della previdenza sociale: in sintesi, è stata abrogata implicitamente la legge 604/1966 che disciplina i licenziamenti individuali, tramite una norma di dubbia ragionevolezza e proporzionalità, dunque in aperto contrasto con la Costituzione.

Una norma illiberale, incostituzionale, illogica e dannosa sotto ogni profilo.

Si bloccano le aziende per salvare i posti di lavoro. Questo l’intento, ma il risultato sarà esattamente l’opposto: fra mesi, quando tutto il clamore della pandemia sarà inevitabilmente scemato, e quando le imprese – che saranno sopravvissute – torneranno ad avere pieno possesso delle proprie prerogative, verranno fuori gli effetti nefasti di chi ha nascosto la polvere sotto al tappeto e si assisteranno a molteplici crisi industriali a catena con migliaia di esuberi in tutti i settori.

Non si licenzia nel 2021, ma si rischia il fallimento comunque entro la fine dell’anno. E con questi presupposti, il rischio è anche per quella grande azienda, poco efficiente, chiamata Italia. Un rischio di collasso economico, al quale ci si può sottrarre unicamente liberando le energie del mercato e dei privati, che stanno combattendo da soli una vera e propria battaglia di sopravvivenza.

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