Ieri abbiamo visto la sentenza della Corte costituzionale polacca. Bruxelles sicuramente risponderà con una procedura di infrazione, il contenuto della quale possiamo qui immaginare.
Le contestazioni a Varsavia, infatti (fatte negli anni e in multiformi occasioni, da ultimo incluse la minaccia di sospendere la partecipazione ai fondi europei e la non approvazione del Recovery Plan polacco), risalgono tutte a quattro procedure di infrazione. Con queste ultime Varsavia è stata accusata: (1) di aver abbassato l’età pensionabile diversamente per giudici donne (60 anni) e uomini (65 anni), assegnando al ministro della giustizia il potere di prolungarla, ma senza un termine fisso per la decisione e sulla base di criteri vaghi e dunque discrezionalmente; (2) di aver poi abbassato l’età pensionabile (65 anni) in misura eguale per uomini e donne, ma assegnando al presidente della Repubblica il potere di prolungarla senza un termine fisso per la decisione e sulla base di criteri vaghi e dunque discrezionalmente, sentito il parere del Csm locale ma non vincolante, per giunta essendo tale Csm composto da giudici tutti nominati dal Parlamento; (3) di aver sottomesso i giudici ad una Camera Disciplinare, nominata interamente dal detto Csm non indipendente essendo composto da giudici tutti nominati dal Parlamento, nonché di consentire che essa sindachi il contenuto delle decisioni dei giudici anche con riferimento ad eventuali richieste di pronuncia pregiudiziale alla Corte europea di giustizia (CGUE); (4) di aver poi assegnato tale potere di richiesta di pronuncia pregiudiziale alla CGUE (in materia di indipendenza della magistratura), in via esclusiva ad una nuova sezione della Corte Suprema, nonché di aver iscritto ad offesa disciplinare la partecipazione ad attività politiche e richiesto ai giudici di rivelare informazioni tipo la partecipazione a social media o, la iscrizione ad ong.
Già il solo abbassamento dell’età pensionabile in misura diversa per giudici donne (60 anni) e uomini (65 anni), era bastato alla Commissione per affermare che “la magistratura del Paese è ora sotto il controllo politico della maggioranza al potere”, “esecutivo e legislativo sono stati sistematicamente messi in grado di interferire politicamente nella composizione, nei poteri, nell’amministrazione e nel funzionamento del ramo giudiziario”, insomma la Polonia già si sarebbe trovata “nell’assenza di indipendenza giudiziaria”.
Tutto ciò importa alla Commissione, in quanto sarebbe violato il 47 CDFUE della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (o Carta di Nizza): “ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata … da un giudice indipendente e imparziale”.
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Purtroppissimo, tale Carta ha sì “lo stesso valore giuridico dei Trattati”, ma “le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei Trattati” (6 Teu). Il che significa che la Commissione non può attivare il 47 della Carta direttamente, ma deve trovare un articolo dei Trattati veri e propri che vi faccia riferimento.
Diversi i tentativi fatti. Il 157 Tfue, che impone la “parità di retribuzione” tra uomini e donne, per opporsi all’abbassamento dell’età pensionabile delle giudicesse; ma senza gran costrutto, visto che poi la stessa Commissione si è trovata ad opporsi all’abbassamento dell’età pensionabile per entrambe i sessi. Oppure il 7 CDFUE e 8 CDFUE, che impongono il “rispetto della vita privata” e la “protezione dei dati di carattere personale”; ma con ciò implicando assurdamente che l’impegno politico attivo di un magistrato debba restare sconosciuto. Oppure il 267 Tfue che assegna a qualsivoglia “giurisdizione” il diritto di chiedere alla CGUE di pronunciarsi, in via pregiudiziale, sull’interpretazione dei Trattati; ma senza gran costrutto, visto che al massimo otterrebbe di sottrarre tale particolare parte dell’attività di un giudice all’interesse di un procedimento disciplinare.
Maggior costrutto ha offerto il 19 Tue, che assegna agli Stati membri l’obbligo di “assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione”. Orbene, Commissione e CGUE se ne sono impossessate: scavalcando la limitazione ai settori disciplinati dal diritto dell’Unione con l’argomento che le corti nazionali si occupano pure di diritto europeo; nonché sostenendo che tale tutela non può che riferirsi a 47 CDFUE, apoditticamente e benché di tale legame i Trattati non facciano cenno. Insomma, l’originaria “tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione” dei Trattati, è divenuta “un giudice indipendente e imparziale in qualunque settore disciplinato dal diritto nazionale o dell’Unione” … ciò senza che i Trattati siano cambiati e per sola sanzione della CGUE.
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Purtroppissimo si tratta di una usurpazione: l’Unione usurpa poteri non suoi. Grazie alla CGUE, che ha spinto l’interpretazione dei Trattati sino a ribaltarne il senso, inventandosi Trattati che non esistono. Perciò l’Unione, come tutti gli usurpatori, ha poi cercato un modo per legittimare la propria usurpazione. Non basta più invocare, come fa il commissario Gentiloni, il principio del “riconoscimento della prevalenza della Corte di Giustizia”: non può bastare perché quest’ultima la ha fatta troppo grossa.
La via scelta è stata invocare i valori sui quali l’Ue si fonda e dei quali i Trattati fanno mera enunciazione (2 Tue) e, fra di essi, in particolare il valore dello stato di diritto. Così Sassoli può dire che “la supremazia dei Trattati europei è indiscutibile” ma riferendosi ai “principi fondamentali”: la supremazia dei principi fondamentali contenuti nei Trattati europei è indiscutibile, egli sta dicendo. Così la Commissione concede che “spetti alla Polonia identificare il proprio modello per il proprio sistema giudiziario” … cara grazia … “ma dovrebbe farlo in un modo che rispetti lo stato di diritto”. Così la CGUE specifica che “il valore dello stato di diritto è concretizzato dal 19 Tue” … di nuovo, senza che i Trattati siano cambiati e per sola sanzione della CGUE.
In tal modo, una norma originariamente limitata (sia nel senso che non specifica cosa significhi tutela giurisdizionale effettiva, sia nel senso che riguarda esclusivamente i settori disciplinati dal diritto dell’Unione) ha trovato applicazione universale (i valori valgono in ogni situazione). Il che ha offerto alla Commissione la scusa per immischiarsi in affari al di fuori dei settori disciplinati dal diritto dell’Unione e, in generale, per impicciarsi di influenza politica nazionale sulla tutela giurisdizionale effettiva.
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Purtroppissimo, tale valore dello stato di diritto nessuno sa cosa sia. È la Commissione stessa ad ammettere pacificamente che, del valore dello stato di diritto, i Trattati contengono solo la mera enunciazione. L’ostacolo è grosso. E la Commissione ha immaginato di superarlo appoggiandosi su una relazione, del 2011, della cosiddetta Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa: relazione intesa ad attribuire un significato alla dizione “rule of law” in quanto contenuta nella versione inglese del proprio Statuto, nonché nel preambolo della propria Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU).
Nel tentare tale operazione, la Commissione si trova di fronte a due ostacoli. Il primo, l’inglese è solo una delle due lingue in cui è redatto il testo ufficiale di Statuto e CEDU: la seconda è il francese e il testo francese recita univocamente “prééminence du droit”, seguito umilmente dal “preminenza del diritto” del testo non ufficiale in lingua italiana. Fin dal 2007, un relatore al Consiglio d’Europa notava ciò escludesse che il testo inglese rule of law significasse stato di diritto. Inducendo l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa a votare una risoluzione, nella quale si pregiava di fissare “la traduzione corretta di rule of law col francese prééminence du droit” ed anzi dichiarava la sua traduzione in stato di diritto come potenzialmente foriera di una interpretazione formalistica e dunque “contraria all’essenza stessa di rule of law/prééminence du droit” che “sono concetti normativi materiali”. Dopodiché, rinviava tutto alla Commissione di Venezia, la quale attribuiva allora significato alla dizione di rule of law nel senso di preminenza del diritto.
Al contrario, nei Trattati Ue, il testo ufficiale inglese “rule of law” si riflette nel francese “état de droit”, nel testo ufficiale italiano “stato di diritto”, nel testo ufficiale tedesco “Rechtsstaatlichkeit” (statualità di diritto), e via così per un totale di 23 testi ufficiali. Per conseguenza, la pretesa della Commissione di interpretare la rule of law/stato di diritto sulla base di una interpretazione della rule of law/preminenza del diritto, appare arbitraria.
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Quand’anche la Commissione potesse mai superare tale primo ostacolo, si troverebbe di fronte ad un secondo. La relazione di Venezia includeva sì, fra “gli elementi necessari della rule of law”, pure una formula ripresa dalla Commissione: “accesso alla giustizia dinanzi a tribunali indipendenti e imparziali”. Ma poi aggiungeva una precisazione che la Commissione non riprende: “indipendenza significa che la magistratura è libera da pressioni esterne e non è controllata dagli altri rami del governo, in particolare dal ramo esecutivo”, estendendo poi la stessa indicazione al pubblico ministero, “che è esso pure in una certa misura autonomo dall’esecutivo”. Ma non solo, pure una successiva “lista di criteri sulla rule of law”, adottata dalla Commissione di Venezia nel 2016, tornava a specificare che “la giustizia deve essere indipendente. Indipendenza significa che essa non è sottomessa ad alcuna influenza o manipolazione politica, soprattutto emanante dall’esecutivo”.
È dunque chiaro che per rule of law la Commissione di Venezia intendeva tribunali indipendenti dal potere esecutivo, non necessariamente dal potere legislativo. Al contrario, con riguardo ai consigli disciplinari, era ammesso che essi vengano nominati persino dall’esecutivo e solo si specificava che “la combinazione di altri poteri governativi non deve far pesare una minaccia o indebite pressioni sui membri del consiglio e sulla magistratura nel suo complesso”. In altri termini, la Commissione di Venezia non affermava affatto che i parlamenti non possano nominare i consigli disciplinari.
Talché, non si vede come la Commissione e la CGUE possano fondare le proprie contestazioni alla Polonia: tanto alla riforma legislativa dell’età pensionabile decisa dal Parlamento, quanto della nomina legislativa dei giudici del Consiglio disciplinare.
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In definitiva, venendo a mancare l’appiglio del valore dello stato di diritto, alla Commissione viene a mancare pure la scusa per immischiarsi di affari al di fuori dei settori disciplinati dal diritto dell’Unione e, in generale, di impicciarsi di influenza politica nazionale sulla tutela giurisdizionale effettiva.
Perciò, Bruxelles ha cercato maldestramente di rimediare, fornendo essa stessa una definizione di stato di diritto e di violazione dello stato di diritto, contenuta nel “regolamento circa un regime generale di condizionalità per la protezione del bilancio dell’Unione” (come visto su Atlantico). Tale definizione, però, è priva di riferimenti normativi nei Trattati, dunque bastante a sé stessa, dunque auto-fondante, come se fosse una modifica del Trattato.
Purtroppissimo, ciò assolutamente non è nei suoi poteri. La Ue non è una federazione, bensì una organizzazione internazionale creata dagli Stati coi Trattati: i poteri che gli Stati non hanno dato alla Ue, la Ue non li ha. La Ue non può modificare i Trattati, solo gli Stati possono: gli Stati sono i signori dei Trattati.
Se proprio vuole impicciarsi degli affari polacchi, Bruxelles deve prima portare a casa una revisione dei Trattati. Una revisione che le assegni poteri che oggi non ha. Una revisione che dovrà ottenere il consenso unanime di tutti gli Stati membri, quindi pure della Polonia. Buona fortuna. Nel frattempo, la Polonia ha ragione e l’Ue torto, marcio.
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Il tema del contendere, quindi, non è la “indipendenza giudiziaria” o lo “stato di diritto”. Il tema del contendere è la innovazione dei Trattati senza modificare i Trattati: fondare un nuovo regime giuridico … indipendente dai Trattati e, quindi, fondato sul nulla. Esattamente come è nel parallelo caso dei “diritti Lgbt” in Ungheria (vedi Atlantico). Lo vede bene Alessandro Mangia. Lo dimostra plasticamente l’editoriale del Corriere di ieri, nel quale Paolo Lepri invoca l’esistenza di fantomatici doveri (“accogliere in modo attento e controllato … ma anche non lasciare gli altri da soli a sostenere l’urto dei dannati della terra”), che nei Trattati non stanno ma che Lepri immagina di poter imporre alla Polonia sulla base di uno “spirito” e dei “rapporti di forza”: cioè dei valori su cui l’Unione si fonda e del regolamento illegale che abbiamo visto. Conseguentemente, nel mondo all’incontrario del Corriere, la partita in corso sarebbe “tra l’Ue e i suoi membri ribelli, primo fra tutti la Polonia” la quale intenderebbe “minare dall’interno le fondamenta europee” … come non fossero state Bruxelles e Lussemburgo ad inventarsi un nuovo Trattato, pur avendone nessun potere. Come pure all’incontrario è il mondo de la Repubblica, ove Lucio Caracciolo può scrivere che polacchi e ungheresi non “aderiscono di cuore alle parziali cessioni di sovranità che noi euroccidentali concordammo” … evidentemente egli conosce un Trattato segreto.
Ciò spiega la crassa superficialità con la quale la oligarchia italica tromboneggia di stato di diritto: basti citare Massimo Giannini (“stato di diritto, cioè i principi basilari sui quali non solo noi europei ma noi occidentali, da quando i Padri pellegrini firmarono la Carta del Mayflower prima di approdare sulle coste del Nuovo Mondo”), Mario Monti (“i principi morali e giuridici sui quali poggia la nostra e, vorremmo, la loro Europa”), lo stesso Paolo Lepri (“i valori … che sono alla base della sua esistenza e che hanno portato pace, concordia e benessere negli scorsi decenni”). A tutti costoro, del destino dei giudici polacchi (come pure di quello degli Lgbt ungheresi) importa come al fabbro importa della saldatrice e all’idraulico importa della chiave inglese.