Piccola premessa: chi scrive aveva un debole per il generale Soleimani. Almeno da quando, nel 2008, mandò al generale Petreaus, all’epoca comandante in capo delle forze Usa in Iraq, un messaggio in cui affermò di avere in mano la politica dell’Iran in Afghanistan, Iraq, Libano e Gaza. Un combattente a viso aperto ed un uomo di indubbie qualità. Che, per di più, aveva anche uno stupendo profilo Instagram – ora, a quanto pare, rimosso – con cui, poco più di un anno fa, aveva ingaggiato un leggendario scambio di meme con il presidente Trump.
Fatta questa doverosa premessa una cosa è chiara.
L’attacco all’ambasciata Usa di Baghdad è finito, almeno per il momento, in maniera molto diversa rispetto all’attacco al consolato Usa di Bengasi dell’11 settembre 2012.
A Bengasi, gli Usa subirono quattro vittime, tra cui l’ambasciatore Cristopher Stevens. Nel frangente la gestione della sicurezza della sede diplomatica fu uno scandalo drammatico e umiliante, che fece vacillare la presidenza Obama e che ancora oggi perseguita Hillary Clinton, all’epoca segretario di Stato.
A Baghdad, durante l’attacco del Capodanno appena trascorso, non solo la sicurezza della sede diplomatica è stata garantita con pronto e adeguato spiegamento di marines, ma, subito dopo, il presidente Trump ha reagito ordinando un attacco aereo all’aeroporto di Baghdad che ha ucciso, tra gli altri, il generale Qassem Soleimani, capo della Niru-ye Qods (in lingua persiana “Brigata Gerusalemme”, Quds Force secondo la stampa occidentale), l’unità delle Guardie Rivoluzionarie (i famosi Pasdaran) responsabile per la diffusione dell’ideologia khomeinista fuori dalla Repubblica Islamica. Un’unità a cui l’amministrazione Trump ha riservato il “privilegio” di essere la prima organizzazione militare ufficiale di uno Stato sovrano ad essere inserita nella lista del Dipartimento di Stato che elenca le organizzazioni terroristiche. Per questo suo ruolo, Soleimani è stato subito indicato come l’“ispiratore” ultimo, se non la “mente” dell’attacco alla sede diplomatica Usa.
Bengasi e Bagdad sono due vicende che, a modo loro, mostrano come il Medio Oriente sia un tragico groviglio di difficile soluzione, in cui contano, però, sempre di più, le “linee rosse”.
L’amministrazione Obama non ha esitato a giocare, nell’area, il ruolo dell’“apprendista stregone”, supportando e manipolando le “primavere arabe” per compiere le proprie operazioni di “regime change”. Con il risultato, però, drammatico e sotto gli occhi di tutti, di lasciare spazio agli estremisti. Inoltre, le “linee rosse” che venivano di quando in quando tracciate, non erano proprio invalicabili, ma orientative. Come dimostra – un esempio tra tutti – il fatto che il presidente siriano Assad sia ancora al suo posto. Obama dichiarò a luglio 2015 che Assad doveva essere rimosso, cosa non avvenuta, proprio grazie all’aiuto decisivo del generale Soleimani.
Per Trump, invece, il Medio Oriente è un’area di guerre che, innanzitutto, non avrebbero dovuto essere iniziate, e da cui, ora, gli Stati Uniti dovrebbero ritirarsi. E questo non perché Trump sia una colomba, ma perché, da pragmatico abituato a far di conto, ritiene che si tratti di guerre che non possono essere vinte (“unwinnable”) ed inutilmente dispendiose dal punto di vista economico. Cosa che fa andare in bestia quel “complesso militare industriale” a stelle e strisce (e non solo) che, invece, le guerre le adora – soprattutto quelle lunghe e senza sbocco. E che, in fasi alterne, tenta di intrappolare Trump in una nuova fase bellica, o di farlo fuori politicamente.
Per Trump, però, le “linee rosse”, se tracciate, sono invalicabili. Ha sempre detto che avrebbe reagito severamente ad attacchi diretti contro gli interessi americani, e soprattutto contro le forze Usa. Ha tenuto il timone saldo rispetto alle provocazioni iraniane nello stretto di Hormuz. E forse a Teheran hanno frainteso il suo atteggiamento, considerandolo – sbagliando – espressione di debolezza. Quando l’Iran ha superato il limite – una “linea rossa” chiaramente percepibile come solo l’attacco ad un’ambasciata può essere – ha reagito rapidamente e duramente. Un monito per tutti coloro che – in Iraq, in Iran, altrove – intendono oltrepassare le “linee rosse” tracciate dall’attuale inquilino della Casa Bianca.