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Condizioni e controlli stringenti all’Italia, mentre i soldi Ue in Africa finiscono in mano a governi corrotti e criminali

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L’Ue che esita ad affidare capitali ai Paesi membri, da decenni concede a piene mani prestiti e finanziamenti a titolo di dono ai Paesi africani, ben sapendo che molto spesso finiscono in pessime mani, in parte sprecati, dilapidati, stornati, che molti dei governi ai quali vengono consegnati hanno eretto la corruzione a sistema, molti dei quali regimi autoritari e sanguinari

Dall’Ue arriveranno aiuti all’Italia contro la crisi economica provocata dalla pandemia Covid-19. Del Recovery Fund da 750 miliardi di euro proposto dalla Commissione europea, all’Italia ne toccheranno quasi 173 (81,8 miliardi a fondo perduto e 90,9 sotto forma di prestiti a condizioni molto favorevoli).

Si parla della necessità di impiegare bene i fondi che riceveremo perché ci saranno “dei meccanismi di rendicontazione imprescindibili e l’Ue valuterà la nostra capacità di fare riforme strutturali in grado di rilanciare l’economia e di generare ricchezza per tutti gli italiani – osservava ad esempio il professor Ruben Razzante il 31 maggio sul quotidiano on line Lanuovabq.it – la cosiddetta spesa pubblica improduttiva spezzerebbe la catena degli aiuti che si interromperebbero (…). Misure in grado di tamponare nell’immediato l’emergenza ma senza contribuire a stimolare in modo duraturo investimenti e consumi sono, dunque, da bandire”. L’Italia, aggiungeva, “dovrà presentare un programma di spesa coerente con le raccomandazioni della Commissione Ue”.

Queste precisazioni richiamano alla mente le discussioni delle scorse settimane in sede europea, la diffidenza nei confronti dell’Italia, l’ostilità in particolare di Olanda e Germania. Il 9 aprile il quotidiano tedesco Die Welt si era addirittura permesso di scrivere: “in Italia la mafia aspetta soltanto una nuova pioggia di soldi da Bruxelles”. L’articolo proseguiva dicendo che “gli italiani devono essere controllati dalla Commissione europea” e, a proposito dei fondi del Mes, che “devono dimostrare” di spendere gli aiuti esclusivamente per l’emergenza sanitaria. Più in generale, la questione sollevata era “fino a che punto deve arrivare la solidarietà finanziaria tra i 27 stati membri?”.

È a dir poco inopportuno che l’Unione europea, e alcuni suoi stati membri, abbiano assunto un simile atteggiamento nei confronti dell’Italia. Si stenta a credere che a sollevare tante questioni sull’affidabilità degli italiani e sui limiti che in generale andrebbero posti alla “solidarietà finanziaria” tra stati siano gli stessi soggetti che, quando si tratta di cooperazione allo sviluppo, non esitano a impegnare miliardi di euro, quasi fanno a gara a chi fa di più, soprattutto se si tratta di Paesi africani. Non più tardi del 9 marzo, prima dell’emergenza Covid-19, la Commissione europea proponeva, anticipando i contenuti del vertice Ue-Africa in agenda il prossimo ottobre, una partnership più stretta con l’Africa per combattere i cambiamenti climatici e creare nel continente nuovi posti di lavoro. “L’Ue cercherà di finanziare la transizione delle regioni africane dipendenti da combustibili fossili”, spiegava la commissaria europea per i partenariati internazionali Jutta Urplainen annunciando “enormi investimenti” dall’Ue e dalle sue banche per lo sviluppo. Sono finanziamenti che, se approvati, andranno ad aggiungersi a quelli del Fondo fiduciario di emergenza per l’Africa istituito nel 2015 per lo sviluppo del “continente gemello” e a quelli del “Piano Marshall per l’Africa”, fortemente voluto dalla Germania e sostenuto con altrettanta convinzione dall’ex presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, secondo cui i miliardi devono essere non meno di 50, con una potenza complessiva grazie ai privati di 300-350 miliardi. L’8 aprile inoltre l’Ue ha avviato “Team Europe”, un pacchetto di oltre 20 miliardi di euro per aiutare i paesi terzi, in particolare quelli africani, ma non solo, nel contrasto alla pandemia Covid-19 e i parlamentari europei hanno sollecitato più aiuti umanitari e per lo sviluppo all’Africa dai Paesi membri e si sono uniti all’appello rivolto da molti governi africani alla Banca Mondiale e al Fondo monetario internazionale per la sospensione del pagamento dei debiti (i ministri delle finanze africane riuniti in video conferenza il 19 marzo hanno inoltre sottoscritto la richiesta di aiuti economici per almeno 100 miliardi subito, per far fronte all’emergenza sanitaria e sociale, e altri 100 indispensabili per reagire all’emergenza economica). 

L’Unione europea che esita ad affidare capitali ai Paesi membri, da decenni concede a piene mani prestiti e finanziamenti a titolo di dono a beneficio di Paesi extracomunitari. Lo fa sapendo che molto spesso finiscono in pessime mani, in parte sprecati, dilapidati, stornati, sapendo che molti dei governi ai quali vengono consegnati hanno eretto la corruzione a sistema, addirittura sapendo che si tratta nel migliore dei casi di “democrazie imperfette” e nel peggiore di regimi autoritari dissimulati, guidati da leader disposti a reprimere il dissenso con la forza, nel sangue se necessario.

Un caso tra i più clamorosi è la Somalia, dove da quasi 30 anni è in corso un irresponsabile conflitto tra clan – politico tra quelli che si spartiscono cariche governative e amministrative, armato tra i clan al governo e quelli che hanno scelto l’islam integralista e il jihad – e dove su 10 dollari consegnati dalla cooperazione allo sviluppo al governo sostenuto dalla comunità internazionale sette non arrivano nelle casse dello stato. Lo denunciava il Gruppo di monitoraggio sulla Somalia dell’Onu già nel luglio del 2012, a conferma di quanto in precedenza rivelato dalla Banca Mondiale secondo cui tra il 2010 e il 2011 si erano perse le tracce del 68 per cento degli aiuti internazionali al Paese. Le denunce non sono valse a mettere fine alla pratica predatoria della leadership somala, soprattutto perché, nel caso della Somalia come di altri Paesi africani, si sa che i prestiti male utilizzati vengono comunque quasi sempre rinegoziati oppure trasformati in dono, e che il flusso di denaro continua incessante, incuranti tutti del crescente indebitamento che d’altra parte spesso si risolve cancellando i debiti accumulati.

Nel 1996 un gruppo di stati molti dei quali europei, tra cui l’Italia che ha contribuito con quasi cinque miliardi di euro, ha creato un programma per la remissione dei debiti dei paesi poveri altamente indebitati, HIPC è l’acronimo inglese. Da allora il programma ha rilevato il debito contratto da 37 stati, 31 dei quali africani, con Banca Mondiale, Fmi e altri creditori per un totale di oltre 100 miliardi di dollari. Alcune settimane fa proprio la Somalia ha ricevuto la notizia di essere stata inserita nel programma. La Somalia è un esempio, ma lo sono anche, per limitarci all’Africa, Burundi, Zimbabwe, Sudan, Sudan del Sud, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana, Mozambico, Camerun, Liberia… quasi tutti gli stati africani sono gravemente compromessi da malgoverno e corruzione e molti da conflitti interni che vanificano ogni possibilità di sviluppo. Tra le istituzioni che lo affermano e lo documentano merita ricordare, perché non può essere accusata di pregiudizio e razzismo, la Mo Ibrahim Foundation, del miliardario sudanese Mo Ibrahim, che ogni anno pubblica un rapporto sullo stato della democrazia e del buon governo in Africa, paese per paese. La fondazione tra l’altro ha istituito il Mo Ibrahim Prize, un riconoscimento che ogni anno va a un leader africano distintosi per la sua fedeltà ai principi democratici e per le sue doti di buon governo. È il più ricco premio al mondo: cinque milioni di dollari più un vitalizio di 200.000 dollari all’anno. Però in 18 anni, da quando è stato creato nel 2007 a oggi, lo hanno ricevuto solo sei personaggi politici, forse neanche tutti meritatamente. Proprio in questi giorni persino il presidente della African Development Bank, il nigeriano Akinwumi Adesina, deve rispondere di corruzione, abuso di atti di ufficio, nepotismo, accuse formulate da membri del suo stesso staff. Oltre ai Paesi africani, sono soci della banca 16 stati europei, inclusa l’Italia. Germania e Francia figurano tra i dieci maggiori azionisti.