Politici, calciatori, donne e uomini di spettacolo, comuni cittadini, in pochi sono riusciti a salvarsi dal servizio di sorveglianza pandemica e di delazione condominiale messo in piedi nell’ultimo anno: il deputato Marattin, i calciatori della Juventus, e tanti altri noti e meno noti si sono visti irrompere la polizia in casa, costretti così a interrompere un qualche banchetto casalingo, in divieto flagrante (e immagino anche fragrante visto l’assembramento prandiale a base di, si spera, buon cibo e vini) rispetto alla stordente sequela di divieti imposti da decreti-legge e più spesso Dpcm, e ad incassarsi poi il verbale di sanzione.
Un intricato groviglio di norme, lemmi e commi, divieti spesso patafisici, talmente surreali e dadaisti che il giornale triestino Il Piccolo ha pensato bene di ‘regalarli’ in allegato al quotidiano, con una pubblicità divenuta giustamente virale in Rete.
Ma più che della propria pantagruelica fame, i cittadini trasgressori della nuova normalità pandemica, intessuta di distanziamento sociale, mascherine, vita ritirata e casalinga e soprattutto solitaria, sono stati vittime privilegiate della degenerazione strutturale del concetto di cittadinanza attiva, con zelanti vicini di casa che si sono resi solerti informatori delle forze di polizia, poi prontamente accorse per sanzionare i commensali assembrati.
Scriveva Erich Fromm, in maniera piuttosto dolente, come nonostante uno dei tratti distintivi salienti tra democrazia e sistema totalitario sia proprio la cifra quantitativa e qualitativa del conformismo, eretto a impalcatura fondante nei dispositivi di controllo dei regimi totalitari, anche nelle democrazie in molti scelgano il conformismo.
D’altronde, se ci si pensa, non è difficile capire perché: il conformismo è rassicurante, caldo, confortevole, santificante persino perché eleva spiriti mediocri sull’altare della consapevolezza sociale assegnando una qualche utile funzione a individui altrimenti intrappolati in esistenze di raro grigiore.
E al conformismo, in un degenerato e osceno sposalizio, si assomma il narcisismo, la voglia di apparire e di essere riconosciuti.
Quante celebrità socialmente consapevoli ha visto emergere il ventro oscuro della terra in questa pandemia, quanti sconosciuti desiderosi di farsi un nome comunicandoci ogni giorno la loro opinione su come moriremo tutti.
Gogne pubbliche e architetture di public shaming contro ristoratori, turisti, giovani, imprenditori, comitive, gli orwelliani ‘due minuti di odio’ indirizzati contro chiunque invochi libertà e ritorno alla normalità, una muta selvaggia, impazzita, feroce, grondante risentimento che trasforma ‘violazioni amministrative’ in ipotesi di potenziale genocidio. Guardiani e chierici del coprifuoco, arcigni scienziati sempre più protagonisti in un autentico reality-show pandemico, presidiano le prime pagine dei giornali e ogni canale televisivo, ad ogni ora del giorno e della notte, dispensando pornografia da terapia intensiva che non sarebbe dispiaciuta al Ballard de “La mostra delle atrocità”.
Sento parlare certe soubrette della nuova peste o alcuni azzimati virologi improvvisati antropologi e psicologi secondo cui per star tranquilli dovremmo murarci vivi per un paio di anni e la mente corre subito al “Rigodon” di Louis-Ferdinand Céline, “la tranquillità è solo per i mediocri, la cui testa sparisce nella folla”.
Non a caso, nell’era della presunta democrazia digitale e dello sgretolamento prima furtivo poi palese dei corpi intermedi, la stessa cittadinanza attiva è rifluita da una iniziativa di consapevole e positiva forma di partecipazione alla vita civile a una sorta di surrogato della delazione di Stato.
Non mi sembra casuale la ripubblicazione proprio in questi anni degli studi sul conformismo di massa, sul narcisismo e sulla psicologia delle folle, con la proposizione anche di nuovi studi su Le Bon, Zimbardo, Lasch.
La cittadinanza attiva, decantata nel generale quadro della vivificazione della sussidiarietà orizzontale, è ben presto trascolorata tra le pieghe del sogno autoritario eterno di una parte della popolazione, quello di vivere in una replica strutturale della DDR, tra STASI, ‘vite degli altri’ minuziosamente auscultate e carpite, casermoni di bruta architettura sovietica, sussidi, redditi di cittadinanza variamente denominati e Stato Padre e Padrone: prima si ramazzavano strade e si facevano fiorire giardinetti, cercando di rendersi supplenti del potere pubblico inerte, e già questa era patologia perché la sussidiarietà implica collaborazione, cooperazione, non potere pubblico che esternalizza consapevolmente, e per mera inerzia o incapacità, i propri servizi a cittadini che quei servizi pagano con le loro spesso sudate tasse, adesso invece per cittadinanza attiva si intende la partecipazione alla sorveglianza di massa ‘richiesta’ per il contrasto alla diffusione della pandemia.
Anche qui: la LUISS University Press ha dato alle stampe, proprio di fresco, “La cultura della sorveglianza” di David Lyon, il cui assunto fondante, mi si perdonerà la brutale semplificazione, è che non c’è più bisogno di un capillare controllo pubblico se siamo noi stessi, spesso in maniera inconsapevole, a renderci entusiasti assertori del controllo, alimentando con segnalazioni, messaggi telematici, fotografie, video, piccole delazioni il dispositivo di controllo sociale.
La pandemia ha estremizzato senza alcun dubbio lo spirito generale di conformismo di massa, ha importato la finale degenerazione della cittadinanza attiva ormai resasi gendarme da soffiata contro la cena in terrazza, e ha esaltato il narcisismo di persone che ebbre di tele-virologia e di meteorologia della morte mandate a getto continuo in televisione si sentono importanti ed esistenzialmente utili alla società con le loro denunce.
Adesso invece di strappare le ortiche cresciute selvagge in un giardinetto o di pulire le tag in vernice spray su qualche monumento, ci si sente utili telefonando alla polizia se sentiamo un eccessivo schiamazzare provenire dal balcone accanto al nostro appartamento.
In fondo da sempre le pandemie, come ci ricorda Foucault, sono l’elemento privilegiato, nella loro inconsueta emergenzialità, per far sedimentare e innervare nel profondo della nostra vita quotidiana i dispositivi essenziali del controllo: un intero capitolo di “Sorvegliare e punire” è dedicato ai regolamenti medioevali per contrastare la peste, i quali rendevano le città un organismo vivo e pulsante di controllo, disposto lungo linee di continua osservazione.
Perché, al di là del conformismo dei piccoli gesti, ad assumere la inquietante ed inquieta cappa del controllo totale, della sorveglianza diffusa appaltata ai cittadini comuni, si è ormai manifestata la peste del conformismo del pensiero, e questa ultima come insegnava Bertrand Russell è molto peggiore e più pericolosa del conformismo spicciolo intessuto di piccoli gesti.
D’altronde la vulgata, il mantra che in circolo gira e inquina televisioni, giornali, siti internet, social media è che per fermare davvero il virus sia necessario colpire con inusitata durezza i ‘collaborazionisti del virus’, gli untori insensibili alle immagini di morte e sofferenza e desiderosi solo di godersi le loro carbonare clandestine in compagnia.
Sì, siamo passati dalla carboneria alla carbonara. Dalle confraternite giurate risorgimentali alle comitive da attico con vista su città nere e silenziose. E non è una boutade, perché purtroppo psichicamente ci siamo dentro tutti, fino al collo.
Sfido chiunque dopo un anno di bombardamento mediatico a dirsi del tutto alieno, quasi fosse un tic pavloviano, da quel meccanismo di controllo mentale che ci porta a guardare con sospetto chi porta la mascherina abbassata sotto il naso. Solo che mentre noi magari affondiamo quel tic con un moto di disgusto verso noi stessi per averlo provato, molti altri lo utilizzano come fattore psichico di innesto per la sorveglianza diffusa.
Ed è così che pullulano le telefonate alle forze dell’ordine per ‘denunciare’ la cotoletta panata fruita in case pullulanti di vita. I giornali fanno a gara nel titolare e scovare ‘feste abusive’, nemmeno fossimo nella Chicago del proibizionismo. La movida è stata trasformata in danza macabra, i ragazzini che bevono una birra sui Navigli o a Ponte Milvio diventano potenziali bio-terroristi, il tutto mentre i virologi da salotto televisivo continuano a spargere sentenze di incertezza e di dubbio pandemico.
Le rockstar e i rapper, quelli che un tempo, decenni fa, si sparavano tra di loro, crepavano di eroina o soffocati dal vomito dopo una epica sbronza, si facevano tenere i servizi d’ordine ai concerti dagli Hell’s Angels, celebravano in musica qualunque ribellione e rivolta, oggi fanno le stories su Instagram piagnucolanti se hanno avvistato dalla finestra due ragazzini che si baciano al parco sotto casa.
Ed è così che, tra un ‘i diritti costituzionali in pandemia sono sospesi’ e altre simili pillole di costituzionalismo d’emergenza dispensate da persone che il diritto costituzionale di casa non sanno manco dove stia, siamo stati tutti risucchiati in questo teatro dell’assurdo, dove non serve nemmeno un solerte funzionario della STASI per ascoltare le nostre conversazioni o per verificare il nostro grado di ossequio alle disposizioni dei Dpcm.
C’è ormai il vicino, per quello. Ditino pungolante che lambisce e titilla i tasti del telefono, per rendere edotte le autorità dell’atroce crimine di voglia di vivere commesso con noncuranza dai suoi vicini, che tanto gli stavano sulle scatole da anni per via di quella assemblea di condominio particolarmente accesa e di quelle spese per il rifacimento del lastrico solare.
Stiamo vivendo nell’epoca del risentimento eretto a sistema, delle piccole e grandi invidie blandite come medaglie al valor civile. Sempre più spesso nella bolgia dei social media leggiamo frasi del tipo ‘io sono murato in casa da un anno e loro a divertirsi’. Dove ‘divertirsi’ in genere è sempre sinonimo di vivere una qualche vita che possa dirsi degna di essere vissuta.
D’altronde in principio, e fuor di pandemia, furono le applicazioni digitali per le segnalazioni alle autorità: alcune encomiabili, come il segnalare una buca su strada, una pianta pericolante, una perdita d’acqua, oppure una triplice fila capace di paralizzare il traffico in qualche viuzza dove le volanti non sono mai solite passare, ma altre in realtà trasformate da subito in sorveglianza a getto continuo determinata da antipatie personale o faide sociali.
Vetture troppo belle. Esistenza personale troppo grama. Ha la moglie appariscente e giovane, lui, l’altro, il nemico della mia esistenza, un lavoro di prestigio, mentre io invece mi rotolo in un tetro monolocale, solo e infuriato contro la società.
È inevitabile. Non c’è nemmeno bisogno di aderire a impostazioni antropologico-negative sulla consistenza ferina dell’animo umano. Date il potere, quello vero, a un individuo e ne farà un utilizzo personalistico e scriteriato.
Come hanno dimostrato gli studi di psicologia del potere e le scienze comportamentali che maggiormente si sono interrogate sui processi di istituzionalizzazione, l’uomo tende sempre a deviare dalla retta via e ad abusare dell’autorità quando questa gli viene concessa in maniera estemporanea e assoluta, quando gli si concede cioè di decidere per gli altri e sugli altri: Philip Zimbardo con il suo esperimento universitario di Stanford, risalente al 1971, riprendendo alcune teoriche di Gustave le Bon ed in particolare quella sulla deindividuazione, ha dimostrato come il potere degli uomini ‘normali’ tenda a rendersi carnaio atroce, senza più alcun limite e controllo.
L’idea di Zimbardo era quella di verificare come un ambiente istituzionale fortemente polarizzato composto da studenti ‘assunti’ per l’occasione, divisi tra detenuti e guardie carcerarie, potesse esercitare influenza sui partecipanti.
La vicenda è nota, e talmente famigerata da esser stata riprodotta anche in due film: l’esperimento venne frettolosamente interrotto per la serie di oscene brutalità commesse da chi si era ‘troppo’ immedesimato nella parte.
È quell’arbitrio lussurioso del potere ‘cantato’ da Sade, e ripreso da Pasolini nel suo ‘Salò’, che rende il signor nessuno semi-Dio capace di decidere sulla vita di un suo simile, potendogli rovinare la vita del tutto.
E noi da un anno siamo de-individualizzati, viviamo in un corpo collettivo anestetizzato dalla narrazione del virus, tutto proteso in questa lotta quasi mistica, senza più senso critico e ipotesi alternative: niente più tumori, niente diabete, niente infarti, c’è solo il Covid; niente mare, niente ferie, niente montagne, c’è solo il Covid; niente passeggiata, niente sesso con la ragazza, niente comitiva sul muretto, c’è solo il Covid; niente più ristorante né festa di compleanno, niente visita ai nonni abbandonati a loro stessi, niente abbracci o socialità, c’è solo il Covid.
Un noto virologo evocava addirittura, in tema di vaccini, l’alto tradimento bellico, ricordando come i soldati disertori in guerra venissero fucilati. Che il codice penale di guerra non preveda più da molti anni la pena di morte è un accessorio, un inconveniente, probabilmente non lo sapeva ma non lo avrebbe comunque detto.
L’importante era dire qualcosa ad effetto, qualcosa di atroce che reiterasse questa cappa di orrore dentro cui siamo tenuti a vivere.
Metafore belliche, torrenziali dati di morte, reclusione domiciliare, noi stiamo vivendo in quel caldo e grigio scantinato di Stanford, con il nostro vicino che dal balcone scatta foto, effettua videoriprese ed è pronto a chiamare i carabinieri se ci sente spadellare in maniera sospetta. È una cultura di sorveglianza e di sospetto diffuso, su cui si sta edificando un mondo per niente piacevole. E che rischiamo di trascinarci dietro, e dentro, anche quando la pandemia sarà finita.