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Contagio coronavirus sottostimato, numeri di Pechino inaffidabili. E sotto accusa finisce l’Oms

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L’epidemiologo Lopalco: il numero reale di casi va probabilmente moltiplicato x10. E molti esperti accusano l’Oms: troppo deferente nei riguardi della Cina

Mentre il presidente cinese Xi Jinping e il presidente Mattarella si scambiano messaggi d’amore e si dicono “profondamente commossi” dalla reciproca “imperitura amicizia”, abbiamo in queste ore conferma di quanto sospettavamo da molto tempo, da un paio di settimane qui su Atlantico, sulla base di storie e testimonianze riportate da autorevoli media internazionali ma anche delle perplessità di alcuni medici e scienziati. I dati del contagio da coronavirus diffusi dalle autorità cinesi, e rilanciati dall’Oms, sono inaffidabili: la sua diffusione in Cina è stata ed è notevolmente sottostimata. E ciò ovviamente è molto grave, perché tutte le autorità sanitarie nazionali stanno basando su quei dati le loro valutazioni e misure di risposta.

Ieri, in un solo giorno, Pechino ha dichiarato 242 morti in più e 14.840 nuovi contagiati nella provincia di Hubei, epicentro dell’epidemia, quando fino all’altro ieri si viaggiava su un centinaio di nuove vittime al giorno e picchi di 2-3 mila nuovi casi positivi. Dati che fanno salire il numero complessivo dei morti a 1.367 e quello dei contagiati a quasi 60 mila. Cosa è successo? È successo che mercoledì le autorità sanitarie cinesi, previo confronto (o dietro pressione?) con l’Organizzazione mondiale della sanità, hanno adottato nuovi criteri per la definizione dei casi positivi di coronavirus – nella sola provincia di Hubei, pare di capire. Non più solo i casi confermati in laboratorio, quindi per mezzo dei test, ora vengono inclusi anche i casi diagnosticati clinicamente. In pratica, si tratta dei malati, e dei deceduti, con polmonite di origine virale, che però non sono stati sottoposti al test.

Ora bisognerà capire se questa impennata si riferisce solo al primo giorno di adozione dei nuovi criteri, e quindi quali sarebbero i numeri complessivi se si fossero adottati quei criteri anche nelle settimane passate, oppure se del nuovo conteggio fanno già parte casi che risalgono agli inizi dell’epidemia. Anche su questo non c’è chiarezza, ma probabilmente lo capiremo dagli aggiornamenti dei prossimi giorni. “Quello che sappiamo è che sono stati adottati nuovi criteri, che sembrano essere più sensibili”, ha spiegato il direttore del Dipartimento di malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità, Gianni Rezza. “Dunque, ora – ha aggiunto – bisogna capire se l’aumento registrato dall’ultimo bollettino è interamente dovuto ai nuovi criteri: in questo caso, vorrebbe dire che prima la situazione era sottostimata”.

L’impennata del numero delle vittime e di nuovi contagiati al mutare dei criteri di conteggio dimostra in ogni caso che nelle settimane passate molti pazienti e molti decessi, anche con sintomi molto gravi come polmoniti virali che suggerivano un’infezione da coronavirus, non sono stati sottoposti al test specifico, non rientrando quindi nella contabilità ufficiale. Che questo sia dovuto alla carenza di kit per il test, all’incapacità delle strutture sanitarie cinesi di assistere tutti i pazienti e i casi sospetti, come emerso in queste settimane da diversi reportage e studi, o ad una deliberata gestione politica dell’emergenza da parte di Pechino – probabilmente una combinazione di tutti questi fattori – a questo punto cambia poco.

Già il 7 febbraio i cinesi avevano cambiato la definizione di “caso positivo”, escludendo chi pur risultando positivo al test non presentava sintomi. “In Cina la situazione è davvero confusa”, commenta il virologo Roberto Burioni sul suo sito, Medical Facts, a suo avviso per una “oggettiva impossibilità a fare fronte a una situazione molto difficile”.

Burioni era stato uno dei primi a diffidare dei numeri ufficiali e ora la mette giù dura: “Non hanno l’affidabilità sufficiente per essere presi in considerazione… Per cui qui non li commenteremo più. Se vogliono prendere in giro il mondo, facciano pure. Io non mi faccio prendere in giro”. Ancora più preciso, su Twitter, l’epidemiologo Pierluigi Lopalco: “Lo vado dicendo fin dall’inizio (non solo io ma tutti coloro che hanno provato a fare modelli di trasmissione): il numero reale di casi va probabilmente moltiplicato x10”.

E sotto accusa finisce inevitabilmente l’Oms, la cui credibilità – e indipendenza – viene messa in discussione. “L’Organizzazione mondiale della sanità si attira critiche per la risposta al Coronavirus”, è il titolo di una lunga analisi del Wall Street Journal: “Gli esperti di salute pubblica si chiedono se l’Oms non sia stata troppo deferente nei riguardi della Cina nella sua gestione del nuovo virus”.

Una contraddizione l’avevamo notata subito in molti: il direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus ha lodato le “straordinarie misure” adottate da Pechino per combattere il virus, definendole addirittura un “nuovo standard”, mentre ha invitato gli altri Paesi a non adottare restrizioni dei viaggi.

Nel non dichiarare prima del 30 gennaio l’emergenza sanitaria globale, scrive il WSJ, “l’Oms ha dato troppo peso alle preoccupazioni di Pechino che la decisione avrebbe danneggiato la sua economia e l’immagine della sua leadership”. Divisioni all’interno del suo Comitato per le emergenze avrebbero impedito che una decisione fosse assunta già nella riunione del 22 e 23 gennaio, subito dopo l’intervento pubblico di Xi Jinping del 20 gennaio. Proprio il 23, Pechino adottava il blocco delle prime tre città (Wuhan, Huanggang e Ezhou), circa 20 milioni di persone, ma secondo una fonte citata dal WSJ avrebbe fatto pressioni sul Comitato perché non dichiarasse l’emergenza globale.

Lodando la risposta cinese, secondo molti esperti, l’Oms ha compromesso i propri standard, intaccato la sua autorevolezza globale e lanciato un messaggio sbagliato ad altri Paesi che potrebbero affrontare future epidemie. Molti esperti sottolineano che l’iniziale cover-up delle autorità cinesi abbia aiutato il virus a diffondersi più velocemente e ritengono, per esempio, che la quarantena di 60 milioni di persone sia in contrasto con le sue linee guida. “Una misura molto estrema che ha un’efficacia limitata su questa scala”, secondo Devi Sridhar, dell’Università di Edimburgo, perché i cittadini si spaventano, tentano la fuga o si nascondono, mentre abbiamo bisogno di fiducia: “Vogliamo che i cittadini si facciano avanti e dicano: non mi sento bene”.

“È ovvio che Tedros e l’Oms si trovano in una posizione terribilmente difficile, tra ciò che la scienza impone e un Paese molto, molto potente”, ha commentato Lawrence Gostin, professore alla Georgetown University e consulente dell’Oms.

Il problema, prosegue il WSJ, è che l’Oms “non può permettersi di alienarsi la leadership cinese, la cui influenza e generosità finanziaria mira ad attrarre nelle cause sanitarie globali. Ha bisogno della cooperazione di Pechino per prevenire una conclamata pandemia – e questa potrebbe non essere l’ultima volta. La Cina è la fonte di molti patogeni emergenti, che passano dagli animali agli uomini nei suoi mercati e possono causare epidemie mortali”.

Il direttore generale Tedros ha lodato la collaborazione mostrata dalla Cina, ma ci sono volute quasi due settimane, riporta il WSJ, perché l’agenzia potesse ottenere un via libera da Pechino ad una sua squadra di tre uomini, arrivata lunedì scorso nella capitale cinese per discutere di una missione congiunta. Ebbene, è ancora in corso la discussione con i funzionari cinesi per definire agenda e questioni che dovrebbe affrontare. Ma il tempo scorre e i numeri salgono.