Col volgere del tempo tende a diradarsi il polverone sollevato dal passaggio, sotto il solleone d’agosto, dal governo gialloverde a quello giallorosso, sì da far intravvedere il nuovo scenario. Pare che si sia ricreato il duplice fronte da Seconda Repubblica, con un blocco di centro-sinistra (5Stelle e Pd) ed uno di centro-destra (Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia), che i primi sondaggi di questo inizio di settembre danno in sostanziale equilibrio. Ma, a dire il vero, il blocco di centro-sinistra non può dirsi tale, perché da un lato il Pd è tutto squilibrato a sinistra, e dall’altro i 5Stelle non sono classificabili come centro, dato che il loro comune denominatore rimane ancora quello di un movimento anti-sistema, quindi estremamente composito. Tant’è che il rapporto è di mero fatto, dettato dall’istinto di sopravvivenza, come tale visto e vissuto come precario, a quanto dimostra l’accordo circa il ritorno al proporzionale puro, motivato in chiave anti-Salvini, ma tale da restituire a ciascuna forza politica una piena libertà d’azione elettorale.
Conte ha enfatizzato nel discorso alla Camera il fatto che sia stato sostituito al contratto del suo primo governo il programma di questo secondo, come segno significativo di un cambio sostanziale: non più combinazione di spinte contraddittorie da mediare faticosamente in fase di attuazione, sì da mantenere il marchio della loro provenienza; bensì sintesi raggiunte e consacrate, da essere presentate e realizzate come comuni, sì da perdere perfino la traccia della loro origine attribuibile all’una o all’altra parte. Ma il problema è costituito non solo dall’essere state le due forze politiche ossessivamente contrapposte su questioni chiave, ma dall’essere una, i 5Stelle, già componente di maggioranza del precedente governo, di cui non intendeva rimettere in discussione quanto realizzato; e tale problema riemerge sia nel programma sia nell’inizio del nuovo corso. Ci sono già state significative prese di distanza rispetto a problematiche strategiche, ma, a voler richiamare quella caratterizzante per eccellenza, cioè la politica dell’immigrazione, le dichiarazioni che hanno accompagnato la recente “apertura dei porti” sono state tuttora espressione di una diversità di vedute, destinata ad accentuarsi una volta che la strada della ripartizione volontaria in vista della riforma del Trattato di Dublino si rivelerà del tutto in salita.
Il fatto è che la ricerca ed affermazione della propria identità, in maniera forte e percepibile quanto più fatta valere in contrapposizione, restano condizioni sine qua non della stessa esistenza dei 5Stelle. Il che spiega come siano state fatte valere spregiudicatamente a livello territoriale contro il Pd, sì da costituire elementi di unione del movimento, in carenza di radicamenti organizzativi; tanto che le aperture di Di Maio a intese a livello locale sembrano comportare la rinuncia del Pd a presentarsi come tale, con candidati comunque battezzati come propri. Il che non vale allo stesso modo per il Pd, cui la rendita di una lunga tradizione, ideologicamente sbiadita ma mai rinnegata, e di una articolata struttura periferica, permettono da sempre di digerire radicali cambiamenti al vertice, che vengono così almeno parzialmente ammortizzati.
Certo il Pd, che dovrebbe non solo rendere relativamente stabile il Governo, ancorandolo toto corde alla Commissione europea, è tutt’altro che stabile lui stesso. Pare aver trovato corso quel disegno renziano di creare un proprio gruppo parlamentare e un nuovo partito, a parole destinato a non mettere in discussione la nuova maggioranza, anzi continuando a farne parte, ma a fatti tale da complicare la partita. Sostenere la nuova maggioranza non vuol dire affatto praticarne fino in fondo la politica, perché altrimenti non sarebbe necessario differenziarsi dando vita a qualcosa di nuovo.
Tutto era prevedibile e previsto. La presa di posizione di Renzi circa la nuova alleanza era funzionale alla conservazione immodificata dei gruppi parlamentari da lui stesso selezionati; non per l’intera legislatura ma per una durata sufficiente certo a licenziare la finanziaria, e al tempo a permettergli di dar vita alla sua creatura, cioè una forza aperta al centro, che, per quanto si dica non esistere più, nelle democrazie occidentali fa ancora la differenza. Nonostante la migliore intenzione, è stato lo stesso segretario del Pd ad aprire la strada, quando sotto la copertura di considerare prioritaria l’unità del partito, ha aperto tutto a sinistra, riabilitando Leu, così da poter recuperare per le elezioni europee la relativa dote, piccola, ma sufficiente a far galleggiare la percentuale del Pd. Dopo di che ha accentuato la deriva a sinistra, con la composizione del governo, penalizzando lo stesso Renzi, che certo non vi si riconosce.
Di contro c’è il costo di quel che è stato definito il “suicidio perfetto” di Salvini, che, però, andrebbe riconsiderato alla luce di quel che ci riserva il futuro, perché ciascuno conosce in base alla sua personale esperienza che comportamenti considerati errori mostruosi al momento, si sono rivelati in prosieguo sotto una luce completamente diversa. Intanto varrebbe la pena di dare un qualche riconoscimento al capitano, perché si deve alla sua insistenza di sovranista se oggi si considera una politica assolutamente condivisibile quella di una ripartizione anticipata degli immigrati e di una ridiscussione del patto di stabilità. Certo dipende da una migliore accoglienza da parte dell’Europa, ma certo questa è figlia della paura che i due signori dell’Ue, Germania e Francia, hanno avuto con riguardo alla costituzione di una Italia contro-protagonista, tale da costituire un polo di attrazione non solo per altri Paesi, ma anche per i propri elettorati.
Nuovo governo, ma anche nuova opposizione, che per la sua stessa composizione mitiga la preoccupazione di “un uomo solo al comando”. Tale opposizione di centro-destra conta in partenza sulla stessa nascita della alleanza 5Stelle-Pd, che rivela chiaramente come ragione fondamentale sia stata quella di evitare le elezioni, motivata e scusata con una argomentazione non propriamente democratica, cioè che farle avrebbe significato far vincere la Lega. Il che ha creato un clima diffuso di insoddisfazione per non averle tenute quelle elezioni, perché la gente è frustrata dalla continua espropriazione della sua c.d. sovranità, cioè di poter dire la sua quando si cambia radicalmente rotta, tanto più se la sua è condannata a priori come esecrabile. Né vale chiamare a sostegno la benedizione dell’Europa, che come non mai è apparsa condizionante la nostra vita politica, con una intrusione tanto esplicita da risultare plateale. Per non parlare dell’attestato di fiducia di Trump, recuperato come statista avveduto, tanto più essendo il partner portante di quella Nato valorizzata come parte di una endiadi inscindibile, Europa e Nato.
Resta che l’Italia è tendenzialmente un paese di centro-destra, rispetto a cui un governo siffatto, con l’attore al tempo stesso più conosciuto e più divisorio, il Pd, tutto spostato a sinistra, riesce a priori indigesto, tanto che non appare nei primi sondaggi una sua crescita significativa. Casomai un po’ di ossigeno l’avrebbero guadagnato i 5Stelle, ma proprio per questo il movimento che Conte vorrebbe istituzionalizzare non pare assolutamente convinto di trasferire la formula nazionale a livello regionale. Il Pd, che si ritiene per il momento miracolato dal rompete le righe di Salvini, spinge in tal senso, così da ripetere il salvataggio nelle elezioni di Umbria ed Emilia-Romagna, perché sa benissimo che una eventuale doppia sconfitta significherebbe la fine della sua roccaforte, così condannato ad essere un partito senza terra. Lo spettacolo è tutt’altro che finito: è appena cominciato.