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Conti pubblici in ordine sono nel nostro interesse: solo così il Paese può ripartire

Banconote euro

Articolo pubblicato sul numero trimestrale di Atlantico dello scorso 27 gennaio

E’ abbastanza facile esprimere desideri o auspici per la prossima legislatura o per il prossimo governo. Più difficile, nelle condizioni date, credere nella realizzazione di ciò che si è auspicato, ma sognare è gratis, quindi possiamo provarci.

Non sappiamo oggi quale maggioranza o governo usciranno dalle elezioni della prossima primavera, anzi non sappiamo neanche se una maggioranza politica potrà essere il prodotto immediato delle urne. A chi scrive piace sognare che quest’incertezza non debba essere fonte di preoccupazione. In che modo? Proviamo a immaginare che ci sia una rivoluzione, ma una rivoluzione interna alla mente della nostra classe politica e dirigente (ma anche della società, civile o meno, sarebbe il caso di aggiungere). All’esito di questa presa di coscienza subitanea, tutti e tre gli schieramenti politici principali – così non c’è neanche da temere strane combinazioni o ‘combine’ tra parti degli stessi – sono presi di soprassalto da una serie di consapevolezze. Ad esempio, che conti pubblici in ordine sono nel nostro preciso, egoistico interesse, e non perché “ce lo chiede l’Europa”; che più deficit, o ‘flessibilità’, non sono soldi in più che la cattiva matrigna o qualche altro gnomo ci elargisce, ma più debiti fatti da noi che noi dovremo ripagare, con più tasse a danno dell’economia futura; che possibilmente, a parità di conti pubblici in ordine, è meglio farli con meno tasse e meno spesa; che la Costituzione è e resta ‘sociale’ e keynesiana proprio laddove qualcuno in malafede, e qualcun altro per ignoranza, afferma essere – con il nuovo art. 81 – diventata liberista o magari monetarista, e che di conseguenza, negli anni di (pur modesta) crescita bisogna pareggiare il bilancio, perché questo era l’insegnamento di Keynes, e non di un cattivone come Friedman, Buchanan o von Hayek.

Se questo sogno si avverasse, potremmo guardare con qualche maggior fiducia a una prospettiva almeno di arresto di un declino che procede da qualche decennio, non certo intaccato dalla moderata ripresa degli ultimi trimestri. Potremmo sperare che la fine inevitabile del Quantitative Easing sia già scontata dai mercati finanziari, che saranno anche antipatici ma senza i quali non si potrebbero pagare le funzioni fondamentali del nostro stato debitore, che questo piaccia o meno. E allora sì, il tempo della BCE per l’Italia sarebbe stato tempo ‘comprato’, a buon prezzo, e non sprecato.

Se questo percorso virtuoso si avviasse, potremmo coltivare qualche altra speranza. Potremmo immaginare che la dinamica positiva del Pil venga ben utilizzata dal governo futuro, qualunque esso sia. Il ‘tesoretto’ – odiosa parola – della maggior crescita, praticamente l’equivalente di una manovra di risanamento ma indolore, sarebbe la dimostrazione che anche una bestia nera come il Fiscal Compact non impone stangate da desertificazione fiscale di un’economia per decenni, come hanno propalato socialisti rossi, neri, gialli e di ogni altro colore, ma si può anche attuare quasi ‘da solo’, col pilota automatico, bastando allo scopo un minimo di crescita nominale, un minimo controllato di inflazione, un costo non proibitivo di finanziamento del debito, a fronte di un avanzo primario assai contenuto. Di tutti questi elementi, il primo e il terzo sono controllabili da noi solo in parte, il secondo quasi per nulla. Ma il quarto sì, ed è quello che da noi ci si aspetta.

Tagliare la spesa? Forse potrebbe bastare congelarla, in termini reali, per qualche anno. Poi, invece di tartassare i beni degli italiani, che ormai lo sono più che abbastanza anche sul piano comparativo, facendo piombare una patrimoniale generale sulle patrimoniali particolari, agire semmai sul patrimonio dello stato e degli altri enti pubblici, alienandone una parte e portando il ricavato a riduzione del debito pubblico. Poi ancora – e non solo! – liberalizzare, anche se questo dovesse dar fastidio a professioni ‘liberali’, almeno nel nome. E infine, nell’arco di una legislatura che durasse, e bene, avviare una sostanziale riduzione della pressione fiscale. Qui si potrebbe avviare da subito un confronto interessante su quali tributi ridurre per primi, in una ‘redistribuzione del carico fiscale’ che non sia la solita prosopopea volta a occultare che serve sempre e ogni volta reperire le famose ‘risorse’, come dicono con stucchevole finta eleganza i signori che trattano i soldi dei cittadini come combustibili fossili che si possono estrarre a piacimento da sottoterra o sotto i fondali marini.

Ma ormai è il risveglio. La legislatura inizia nel caos, il QE è finito, formare un governo è impresa ardua, gli osservatori internazionali, la famigerata Europa, i mercati ricominciano a mettersi in ansia. Un po’ di ripresa c’è ancora ed è destinata a durare nonostante tutto qualche trimestre, perché l’economia reale ha queste strane dinamiche che per un po’ se ne infischiano e vanno avanti per conto proprio. Ma poi torna a fiaccarsi anche questa, perché la mala-politica ha il potere di rovinare tutto. Alla fine l’unica soluzione su cui tutti si trovano d’accordo è quella di disperdere il ‘tesoretto’ in tanti bonus, mancette, micro-misure di categoria, coop o corporazione, come certa nobiltà medioevale e rinascimentale a volte in giorni di festa lanciava cacciagione e altre prelibatezze dal balcone al popolino affamato, che si accalcava sgomitando e sgambettando gli altri per raccoglierlo (oggi sono cambiate le “tecnicalità” per farlo: la chiamano sovranità popolare, ma resta altra cosa). E torna a girare quella strana parola, spread.
Oppure no. Questo è stato un incubo, quella la nuova realtà in cui sperare. Chissà…