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Contrordine! Draghi in continuità con il Conte 2: non riapre il Paese e prepara la beffa degli aiuti “selettivi”

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Riaprire il Paese. Questo uno degli obiettivi che Mario Draghi, durante le consultazioni, avrebbe prospettato ai leader dei partiti, almeno stando a quanto riportato, tra gli altri, da Matteo Salvini al termine del suo colloquio. Ma l’allora presidente incaricato evidentemente non deve aver specificato quando. Se la strategia comunicativa del presidente Draghi è “parlare con i fatti”, il primo fatto del suo governo, in carica da sabato scorso, è la proroga della chiusura degli impianti sciistici fino al 5 marzo, quindi praticamente fino alla fine della stagione, che ha gettato un intero comparto nella disperazione.

Una vera e propria beffa, anzi una vigliaccata, perché il decreto del ministro Speranza è arrivato a meno di 10 ore dalla riapertura, alla quale gli operatori si erano diligentemente preparati nelle ultime settimane adottando tutte le misure di sicurezza indicate dal Cts e concordate con i presidenti di Regione. Migliaia di persone mobilitate tra imprenditori e lavoratori, milioni di euro di investimenti per l’adeguamento, tutti in fumo. Danni incalcolabili (le spese oltre ai mancati guadagni) che i “ristori” non ristoreranno che in minima parte. Uno sfregio inaccettabile a chi lavora e investe nel suo Paese.

Una decisione di una gravità purtroppo non inaudita, essendo solo l’ultima di una lunga serie di chiusure illogiche, sproporzionate, non supportate da argomenti e dati scientifici, troppo spesso senza nemmeno sufficiente preavviso e dopo che i gestori del settore avevano investito per mettere le loro attività in regola con le prescrizioni sanitarie. Chiusure che fin da subito sono state, invece che l’ultima ratio, la prima opzione di un governo impotente, totalmente incapace anche nella seconda ondata di approntare una risposta efficace sul fronte sanitario. Dal tracciamento, di cui da ottobre scorso non si sente più nemmeno parlare, al fallimento già conclamato a metà febbraio della campagna vaccinale, passando per i ritardi sulle terapie intensive, l’assenza della medicina territoriale, la disorganizzazione di scuola e trasporti.

L’obiettivo fissato a inizio gennaio di vaccinare 6 milioni di persone, gli over 80 e i soggetti più a rischio, entro fine marzo, è ormai sfumato, come scrive il Sole 24 Ore. Ad oggi vengono vaccinate solo 20 mila persone al giorno, un numero irrisorio e lontanissimo dalle 100 mila che servirebbero.

Come più volte denunciato da Atlantico Quotidiano, l’emergenza vale a senso unico, solo verso cittadini e attività economiche, ma non per la macchina burocratica statale, incapace di individuare le priorità, di mobilitare risorse e produrre risultati in tempi consoni ad una asserita emergenza. Le chiusure servono quindi a coprire le falle e i fallimenti del sistema statale.

In questo il governo Draghi parte con il piede sbagliato e in totale continuità con il Conte 2. E in effetti, non si poteva interpretare diversamente la conferma di Roberto Speranza al Ministero della salute, spiegata anche dai quirinalisti come una esplicita richiesta di “continuità” del Colle. Una conferma che aumenta le chance del consulente Ricciardi e del commissario Arcuri, figure simbolo il primo del lockdown totale e il secondo dell’inefficienza, di restare al loro posto. Così come sembra destinata a restare la suddivisione delle Regioni per colori, con zone rosse in aree circoscritte.

La discontinuità avrebbe dovuto essere la condizione sine qua non di un governo di unità nazionale, per evitare che le opposizioni, marginalizzate e demonizzate a inizio pandemia, venissero ora chiamate a mettere la faccia sui disastri altrui, e a perpetuarli, senza nemmeno l’ombra di una riflessione su una strategia alternativa di convivenza con il virus che non passi per la distruzione di interi settori economici (e pare che ora venga addirittura teorizzato l’abbandono al loro destino delle attività “non più vitali”, ma ci torneremo). Una discontinuità era indispensabile certo nei nomi, ma anche nel superamento dell’architrave giuridico emergenziale, quel combinato disposto di decreti legge e Dpcm, messo su dal Conte 2 per limitare le libertà fondamentali con atti monocratici del presidente del Consiglio o del ministro della salute.

Ora è inutile, forse autoconsolatorio, stupirsi che Speranza faccia Speranza, o raccontarsi che la sua linea non sia condivisa da chi ce l’ha rimesso. Qualche maestrino ci spiegava che è nella logica di un governo di unità nazionale che qualche ministro possa non piacerci. Ma non è questo il punto: ovvio che della compagine di governo avrebbero dovuto far parte ministri del Pd, di Leu e 5 Stelle, ma nulla obbligava a confermare proprio Speranza e proprio alla Salute, così come Franceschini alla Cultura o Di Maio agli Esteri. Leu avrebbe potuto avere il Lavoro con Epifani, per fare solo un esempio.

Se fino ad oggi – giorno della fiducia al Senato – il presidente Draghi non ha ritenuto di condividere pubblicamente le sue idee per far ripartire il Paese, sapevamo che la lista dei ministri avrebbe rappresentato il primo vero test. E non è stato un test soddisfacente.

Sarebbe riduttivo interpretare la conferma di ben nove ministri del precedente governo – tra cui appunto Speranza alla Salute, postazione strategica in tempi di pandemia – e la decisione di tenere chiusi gli impianti sciistici, come provocazioni per indurre la Lega a qualche fallo di reazione. Né ci si può raccontare che la proroga della chiusura sia addebitabile al solo Speranza, avendo Palazzo Chigi inteso dare piena copertura all’ordinanza del ministro rendendo noto di aver condiviso la decisione.

La realtà è che sia la composizione, sia le prime decisioni, dimostrano che il governo Draghi non nasce per segnare una discontinuità con il precedente, quanto meno non nella gestione dell’emergenza sanitaria, come si aspettavano e chiedevano le opposizioni.

Se andiamo infatti ad analizzare le scelte del presidente Draghi (e del Colle) ci accorgiamo che da un punto di vista strettamente esecutivo, l’intento è quello di blindare tutta la politica economica ed europea. Tre tecnici d’area (di sinistra, ovviamente) a presidiare le materie oggetto del Recovery Plan: le due “transizioni”, ecologica (Cingolani) e digitale (Colao), a cui Bruxelles vincola l’utilizzo dei fondi, e le infrastrutture (Giovannini). Il fedelissimo Franco a Via XX Settembre e Cartabia a Via Arenula, a controllare il bilancio e impostare le riforme del fisco e della giustizia, poste dalla Commissione europea come condizioni per l’erogazione dei fondi. Il resto, sostanzialmente, viene lasciato ai partiti: scannatevi pure…

Qui sì, c’è discontinuità, perché voluta da Bruxelles: il governo Conte non aveva prodotto un Recovery Plan soddisfacente e non forniva sufficienti garanzie, diciamo così, né sulla capacità di spendere bene le risorse, né sulla programmazione delle riforme richieste. In poche parole, meglio che a gestire, o almeno a programmare l’utilizzo dei fondi europei fosse Draghi che il duo Conte-Gualtieri. Se ci siamo liberati di questi ultimi il merito è di Bruxelles, via Renzi.

Da un punto di vista politico, la scelta dei sei ministri di Lega e Forza Italia è caduta sugli esponenti di quei partiti meno indigesti alla sinistra, di comprovata fede europeista e “moderazione”, cioè come ha già osservato Musso su Atlantico Quotidiano, quelli che offrono maggiori garanzie di non lasciare l’esecutivo nel caso in cui i loro partiti decidessero di ritirare l’appoggio al governo.

Abbiamo riconosciuto alcuni buoni motivi che hanno portato la Lega a sostenere Draghi e ad entrare nel governo (rovinare i piani degli avversari; recuperare centralità politica ed entrare in alcune partite importanti come la successione di Mattarella e la legge elettorale; rappresentare le istanze del nord produttivo nella fase di ripartenza del Paese), ma ci siamo permessi anche di segnalare i rischi di questa scelta. A questo punto, una volta tratto il dado sul se, la differenza la farà il come la Lega ci starà. Dovrà dimostrare ai suoi elettori e al mondo produttivo che “vigilare da dentro” non è fine a se stesso, di riuscire a condizionare l’azione di governo a tutela dei loro interessi. Quello che temiamo, è che se si tratta della ricerca di una legittimazione europeista, come molti hanno purtroppo teorizzato, allora l’appoggio a Draghi e la permanenza nell’esecutivo non potranno che essere incondizionati.

Oltre alla continuità nelle chiusure, insidiosissima è l’idea già abbozzata da Gualtieri, ma rilanciata da Draghi (e adottata dall’Eurogruppo), di aiuti “selettivi”, solo alle imprese ritenute “vitali”, cioè quelle che andavano bene prima che scoppiasse la pandemia. Ma come può un governo (su quali basi, secondo quali criteri?) giudicare se un’attività economica, sebbene in crisi già da prima, sarebbe comunque fallita e non si sarebbe potuta riprendere?

Una sorta di potere di vita o di morte sulle imprese e sui lavoratori autonomi, e potenzialmente su interi settori, che fa rabbrividire. La pandemia potrebbe diventare il pretesto per una gigantesca operazione di “pulizia” economica e sociale ai danni della micro e piccola impresa, da anni ritenuta in alcuni ambienti un ostacolo alla nostra crescita. Insomma, uno sterminio dei kulaki.

Nella lettera del 20 gennaio scorso dell’ex ministro Gualtieri al commissario Gentiloni e al vicepresidente della Commissione Dombrovskis si parla non solo di misure “selettive”, ma anche di aiuti nella forma “principalmente” di “crediti d’imposta al fine di promuovere la tax compliance“, quindi non più “ristori” a fondo perduto. Un cambio di rotta annunciato cui il presidente Draghi intenderebbe dare seguito.

Insomma, alcune attività le si lascerebbe chiudere sulla base dell’assunto arbitrario che non ce l’avrebbero comunque fatta, a prescindere dal Covid, mentre alle imprese e alle partite Iva messe in ginocchio dalla pandemia, o addirittura costrette a chiudere dal governo, verrebbero offerti non indennizzi, sebbene minimi come oggi, ma crediti di imposta. E a noi non può non venire in mente quella scena di “Bianco rosso e verdone” in cui l’ingenuo nipote si rivolge spaesato alla nonna: “Nonna, m’hanno dato un Buono, che vor dì?”
E la sora Lella: “Vor dì che te la piji…”.
Ma nel nostro caso non c’è davvero nulla da ridere.

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