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Conversazione a tutto campo con Tommaso Giuntella: fake news, cyberjihadismo, politica estera, Pd

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Tommaso Giuntella è una voce almeno due volte interessante da ascoltare, nel consenso o nel dissenso. Per un verso, per il suo impegno politico: prima alla guida del comitato Bersani alle primarie del 2012, poi come coordinatore dell’Associazione Democratici Socialisti, fondata insieme con Enrico Rossi e infine nel comitato nazionale dell’Associazione Democrazia Europa e Società, con Andrea Orlando. Per altro verso, come esperto di questioni digitali: guida infatti il Centro studi democrazie digitali. Atlantico gli ha posto alcune domande, spaziando dai temi internazionali alle questioni di politica interna.

ATLANTICO: Si parla molto di fake news, ma la sensazione è che troppo spesso si ragioni o in chiave nazionale (a volte si direbbe: condominiale) oppure pensando solo ad alcuni attori esteri (Russia in testa).

GIUNTELLA: Purtroppo, come spesso accade, ci siamo trovati di fronte ad un fenomeno che, almeno dalle nostre parti, non è stato capito e studiato in tempo ed è diventato un argomento di dominio pubblico (chi non ha parlato di fake news dalla politica agli show di varietà?) senza essere compreso. Si sono scritti libri, promosse leggi e indetti convegni sul tema senza mai prendere la giusta distanza per avere uno sguardo d’insieme e fare un’analisi profonda del fenomeno della guerriglia informativa al tempo degli ambienti digitali. È ovvio che un ragionamento in chiave nazionale non può che essere inefficace se parliamo di un ambiente nel quale tre miliardi e settecento milioni di cittadini del mondo coabitano permanentemente e sono raggiungibili con un solo post su un qualunque social, una piazza affollata che, ahinoi, vive delle stesse dinamiche di qualunque piazza reale. Basta aprire i Promessi Sposi per accorgersi che le fake news sono sempre esistite e sono sempre esistiti agitatori che “Fanno a chi saprà sparger le voci più atte a eccitar le passioni, a dirigere i movimenti a favore dell’uno o dell’altro intento”. I meccanismi della condivisione emotiva sono sempre esistiti e hanno sempre avuto bisogno di una piazza gremita nella quale far circolare notizie dal forte potenziale di indignazione, non importa se vere o false, purché in grado di attivare le emozioni primarie. La percezione delle fake news oggi è cambiata a causa del fatto che la costruzione del senso comune parte dal basso e non più dall’alto come avveniva in passato. Quanto più una notizia coinvolgerà le nostre emozioni, tanto tenderemo a ritenerla vera. Mentre noi ci attardiamo con parole e proposte irrilevanti reti complesse statali e parastatali (come nel caso sempre più lampante della Russia) e organizzate in tutto il mondo riescono a influenzare l’opinione emotiva e a fare la loro parte nei processi decisionali e nei moti di indignazione. Facebook ha accelerato la spreadability delle fake news a tutti i livelli. e se pure i siti che le generano registrano basse visualizzazioni come sostiene il Reuters Institute, su Facebook vengono condivise perché oggi l’informazione è veicolata in forma compressa e quindi bastano titolo, breve descrizione e immagine con link ed ecco che abbiamo la notizia.

ATLANTICO: Eppure c’è forse molto altro: l’azione di player mediorientali, filoiraniani, non di rado con accenti di chiaro supporto al terrore fondamentalista islamista. Come spiega questa disattenzione?

GIUNTELLA: Non solo siamo disattenti ma siamo perfino vittime di questo tipo di campagne. In Medio Oriente è quotidianamente in atto una vastissima produzione di contenuti diversificati, ottimizzati e incanalati in base a tre intenti particolari per destinatari differenti: l’istigazione all’odio, la propaganda anti israeliana e il cyberjihadismo (arruolamento, haking, guerriglia). Con il Centro Studi Democrazie Digitali stiamo analizzando un’enorme quantità di dati provenienti da quell’area che confermano questa tendenza: da una parte si producono contenuti antisemiti e volti a istigare e alimentare l’odio nei confronti del popolo ebraico e dell’occidente, senza risparmiare i bambini, come testimonia l’immensa produzione (soprattutto made in Iran e Palestina) di vignette, cartoni animati, e video di recite e poesie, che vengono immesse su youtube, facebook e nei programmi di messaggistica come whatsapp, messenger e telegram, non solo da singoli utenti ma soprattutto da organi ufficiali, contestualmente si producono contenuti che hanno lo scopo di orientare l’agenda mediatica occidentale, come i video girati dalle famiglie di Nabi Saleh, che mandano i loro giovani a schiaffeggiare e provocare in ogni modo i soldati israeliani sperando in una loro pur minima reazione. Anche un legittimo arresto per gravi violenze, se filmato dalla giusta angolazione e montato con gli opportuni tagli, può trasformarsi in una potentissima arma di indignazione contro l’”odiosa oppressione”. Al giornalista non serve nemmeno recarsi sul posto, gli basta pubblicare il materiale, commentarlo opportunamente aggiungendo un tiepido “secondo fonti palestinesi”. E’ così che la BBC nel 2014 si è trovata a doversi scusare per aver pubblicato immagini di un attacco avvenuto in Iraq proponendole come immagini di distruzioni avvenute a Gaza. Ogni giorno possiamo assistere al paradosso di Abbas che incontra leader mondiali invocando la pace e la reciproca comprensione e ottenendo solidarietà, mentre i profili del suo stesso partito pubblicano vignette della propaganda nazista degli anni 30 o celebrazioni in memoria di terroristi e assassini. Poi come dicevo c’è il cyberjihadismo e il cyberwarfare. Un mondo a parte nel quale ci troviamo sempre a rincorrere.

ATLANTICO: Come funziona il cyberwarfare e in generale la strategia di questi ambienti?

GIUNTELLA: Oggi, le information operations, delle agenzie di influenza statuali o private, sono condotte attraverso azioni di disinformazione, di propaganda, di inganno o di influenza che attraverso i social media assumono caratteristiche di campagne di astroturfing. Viviamo in un’economia dell’attenzione nella quale i player si contendono il nostro tempo, e per farlo elaborano costantemente le informazioni che noi stessi cediamo a titolo gratuito. Sul piano superficiale la strategia è quella dell’infowar, e si basa sul clickbait, la produzione massiva di news più o meno vere, e il newsjacking, ossia il dirottamento di senso di una notizia appena questa prende vita. Più si scende in profondità e più si possono osservare strategie sotterranee che hanno come obiettivi primari i big data. Dai database delle istituzioni, agli archivi militari, dalla manomissione delle strutture funzionali alla propagazione di messaggi di propaganda, dobbiamo renderci conto che i dati oggi sono una risorsa di grande valore, l’accesso a determinati database è decisivo nella determinazione di scandali politici e giudiziari e dunque nella caduta di figure di vertice e nell’orientamento dell’opinione pubblica. Chi vuole destabilizzare una democrazia sa che un team di hacker oggi può causare molti più sconvolgimenti di un commando terroristico. Poi c’è tutto il fronte dell’arruolamento, recenti studi hanno evidenziato come il jihadismo prediliga i canali della cultura pop occidentale per intercettare potenziali aderenti nella loro solitudine, per farle un esempio, uno di questi studi ha rivelato come siano utilizzati i video di musica hip hop su youtube per stabilire una prima empatia e attirare nuove possibili reclute attraverso i commenti e l’inserimento in reti sociali. Il ruolo che svolgono i siti di social networking nella negoziazione, adozione e diffusione delle identità collettive orientate alla gioventù e legate al movimento jihadista radicale è sempre maggiore, e un’attenzione particolare va data anche a tutto l’underground dei gruppi nei programmi di instant messaging, dove è estremamente difficile entrare e organizzare delle controstrategie.

ATLANTICO: Da qui a valutazioni complessive di politica estera il passo è breve. Come giudica l’atteggiamento della sinistra italiana verso Israele? Non le pare che ci sia una tendenza (largamente condivisa anche a destra, purtroppo) a oscillare tra omaggi formali (Giorno della Memoria, ecc) e sostanziali ambiguità rispetto al quadrante mediorientale?

GIUNTELLA: Si, è così ed è deprimente. Se pensa che gli organizzatori del corteo del 25 aprile a Roma hanno preferito rifiutare la partecipazione della storica brigata ebraica in favore di gruppi tutto si augurano tranne che una soluzione pacifica delle contese arabo israeliane e che niente hanno a che vedere con la storia della liberazione di Roma, mi sembra di poter dire che ci troviamo di fronte all’emblema della disfatta culturale di una parte del nostro Paese. Che senso ha fare memoria della Shoah, delle leggi razziali, dell’assurdo dolore inflitto al popolo ebraico da secoli di colpevole pregiudizio se poi chiudiamo gli occhi di fronte a chi si pone il medesimo obiettivo di Hitler e non disdegna di ricorrere agli stessi argomenti e perfino alle stesse immagini di propaganda? La sinistra italiana ha ormai da decenni perso la bussola nell’analisi della questione mediorientale, manca una visione di fondo, quella che dall’apertura dei cancelli dei campi nazisti – dai quali uscirono salvi anche i miei nonni, internati militari italiani – prometteva al mondo di chiudere per sempre la pagina delle persecuzioni etniche, religiose e politiche. In nome di quella visione comune non solo dovremmo riprendere il percorso di integrazione europea con uno sguardo ben saldo verso l’atlantico, ma saper anche riconoscere da che parte stare, e non parlo per forza delle parti in causa nel conflitto, voglio volare più in alto, voglio stare dalla parte della convivenza, della libertà e della democrazia, dalla parte di chi al di qua e al di là della barricata si pone in questa prospettiva e non in quella dell’annientamento dell’altro. Quando sono stato in Israele, ho potuto parlare con una parlamentare della Knesset che ha la mia stessa età, è entrata in parlamento dopo aver guidato un’ondata di proteste civili contro il governo, siede in un parlamento nel quale sono rappresentati tutti i partiti, tutte le religioni, tutti punti di vista, perfino quello di chi non vorrebbe che esistesse quello stato. Ho ripensato a Vittorio Foa disse al senatore Pisanò “Se aveste vinto voi, io sarei ancora in prigione. Siccome abbiamo vinto noi, tu sei senatore”.

ATLANTICO: Sbagliamo se osserviamo che nel Pd c’è stata una strana e silenziosa cancellazione dalla liste di molte personalità atlantiste e pro-Israele? E’ vero? Come si spiega?

GIUNTELLA: Io credo che la nostra politica sia affetta da un localismo disperato. Va bene camminare con i piedi nel fango, ma lo sguardo deve essere sempre rivolto al cielo. Vedo invece che si fanno piccoli calcoli, non si riesce ad andare oltre al breve periodo, non si tiene conto di cosa dovrebbe dire un partito, non si fa formazione politica seriamente, è tutto ridotto al marketing emotivo per un verso e all’autoreferenzialità per l’altro. La selezione del personale politico che ne risulta è irrimediabilmente al ribasso, la fedeltà è l’unico denominatore comune e purtroppo non di rado questa situazione ha portato anche a delle gaffe pubbliche, figuracce, grossolanerie e scivoloni che nel caso di chi ricopre cariche pubbliche e magari si occupa anche di affari esteri, finiscono per mettere in difficoltà non solo un partito ma anche il settore diplomatico. E poi certi silenzi su questioni sulle quali la nostra attenzione e la nostra amicizia dovrebbero essere manifeste, hanno pesato e parlato più delle parole mal poste. Il prossimo parlamento perderà molte competenze e professionalità, penso per esempio ad Andrea Manciulli.

ATLANTICO: Chiunque vinca (o non vinca) le elezioni, che politica estera italiana prevede e quale invece auspicherebbe?

GIUNTELLA: Prevedo, ahinoi, una politica estera ancora una volta poco chiara, improntata al perseguimento di piccoli interessi circostanziati e per questo troppo ondivaga, non in grado di impostare una strategia e, dunque, poco affidabile per i nostri interlocutori. L’Italia deve dire chiaramente da che parte sta e ancor più chiaramente dimostrarlo con i fatti. Parlare con tutti, amare e perseguire la pace e la comprensione con tutti, ma proprio per questo non vacillare nei principi e non dare l’impressione di mercanteggiare finendo per assumere posizioni poco condivisibili in nome di un interesse particolare o di qualche accordo. Solo così potremo essere protagonisti in Europa e nel Mediterraneo. Recentemente sto consigliando di vedere la serie tv The man in the high castle, adattamento di un romanzo che consiglio altresì di leggere e che parla di un ipotetico mondo in cui la seconda guerra mondiale ha avuto esito opposto a quello che conosciamo. Ecco, basterebbe quella lettura e quella visione a capire quanto dobbiamo guardare all’Atlantico con amicizia, gratitudine e speranza per il futuro.

ATLANTICO: Chiudiamo tornando alla politica interna. Quella del 4 marzo non si annuncia (a meno di sorprese) come una notte trionfale per Matteo Renzi. Che accadrà nel Pd? Esistono forze non renziane in grado di manifestarsi non solo per l’ostilità a Renzi ma anche per un progetto di ri-costruzione?

GIUNTELLA: Io resto convinto della necessità di un Partito Democratico così come era stato sognato da tanti maestri e da un pezzo di popolo che si sentiva di centrosinistra, e mi ostino a pensare che un Pd con radici salde e una visione chiara, non possa che essere una risorsa per il futuro e che quindi sia giusto rimanervi, augurarsene la salute e organizzare forme che diano cittadinanza a chi non crede a certi metodi e alla politica degli staff ma non vuole sacrificare il Pd sull’altare di un boicottaggio personale a un segretario al momento gode di un consenso maggioritario. Purtroppo quella che Renzi aveva annunciato come rottamazione, forse proprio per i toni eccessivi, è finita come tante rivoluzioni annunciate, con una mera operazione di sostituzione. Io in un’intervista al New York Times avevo anche riconosciuto a Renzi il merito di aver interpretato una necessità molto sentita anche nella mia generazione, quella di operare un ricambio, ma vedo che ciò è stato fatto molto nelle idee (o piuttosto nelle parole) e poco nelle gambe portatrici delle idee. L’errore imperdonabile poi è la chiusura totale alle minoranze e alla promozione di un dibattito vero, sembra che la frenesia verso il ritorno al voto abbia fatto apparire come inutile qualunque forma di discussione interna, che invece avrebbe aiutato a dare un luogo per tenere dentro tanti delusi dalla mancata realizzazione di quel sogno e dalla gestione attuale. Per parte mia ho raccolto la volontà di tanti ragazzi e ragazze da tutta Italia che vogliono discutere e rimanere dentro e dare una mano per il futuro, anche se dovesse trattarsi di ricostruire. Fino al voto ci si impegnerà per il risultato, dal giorno dopo per tenere in piedi quella casa che non appartiene a nessun leader di turno, ma a una storia politica che ha ancora tanto da dare al Paese.