Tardivi e ipocriti gli appelli all’unità dopo le accuse di razzismo e sciacallaggio. E ora, invece di ammettere gli errori, Conte invoca pieni poteri e prova a scaricare la colpa sulle Regioni e addirittura sugli operatori sanitari
In poche ore l’Italia ha raggiunto il podio della triste classifica dei contagi da coronavirus, superando di slancio Hong Kong, Singapore e persino Giappone. Davanti, oltre alla Cina naturalmente, c’è solo la Corea del Sud. Com’è possibile, è la domanda che tutti ci stiamo ponendo in queste ore, una tale esplosione dei contagi in Italia mentre negli altri Paesi europei i numeri sono pressoché fermi da giorni? Proprio ieri sera il ministro della salute francese ha annunciato la guarigione dell’ultimo paziente ricoverato, “non c’è più circolazione del virus sul territorio nazionale”. La situazione è simile in Germania e nel Regno Unito, dove ormai quasi tutti i positivi sono guariti e non si registrano nuovi casi, se non alcuni di ritorno dalla nave da crociera Diamond Princess. L’unica spiegazione che possiamo escludere, credo, è la sfortuna. Solo due ipotesi restano in piedi: noi stiamo facendo controlli a tappeto e gli altri no, oppure loro sono stati più bravi di noi, nelle scorse settimane, a intercettare e isolare i casi importati prevenendo la diffusione del virus.
Non è peregrina la prima, sostenuta anche dalla virologa Ilaria Capua:
“Sono convinta che diversi Paesi europei hanno casi di coronavirus che verranno diagnosticati nei prossimi giorni. Nelle prossime settimane si chiarirà anche questo aspetto, così come l’effettiva estensione del contagio in Italia. Forse, molto banalmente, abbiamo diagnosticato di più e prima”.
Se è davvero così, lo scopriremo presto: anche gli altri Paesi cominceranno ad accorgersi di polmoniti che con le solite cure non si risolvono ed emergeranno i primi focolai. Vorrà dire che eravamo in anticipo rispetto agli altri, che il virus in Europa si è diffuso prima da noi che altrove.
Non infondata nemmeno l’altra ipotesi della Capua, secondo cui il virus potrebbe circolare “da settimane”, “se non addirittura qualche mese”. I tempi coinciderebbero. Se il virus si è diffuso in Cina a partire dai primi di dicembre, grazie alla velocità degli spostamenti e al numero di collegamenti potrebbe essere sbarcato in Europa e, quindi, in Italia, già durante la prima metà di gennaio, molto prima che Pechino e l’Oms dichiarassero l’emergenza. Potrebbe persino essere una buona notizia. In questo caso, spiega infatti la Capua, ciò potrebbe significare che “il numero degli infetti è maggiore di quanto pensavamo. E il potenziale letale del virus, molto minore”, “nella stragrande maggioranza dei casi è incapace di provocare una malattia degna di essere portata all’attenzione dei medici”. I focolai che vediamo oggi non sarebbero che la punta dell’iceberg, ma allo stesso tempo il picco dell’epidemia.
La pericolosità del coronavirus sta tutta nei suoi numeri, nella sua diffusione, nell’ospedalizzazione che richiede proprio per evitare i decessi: circa il 10-15 per cento dei contagiati ha bisogno di ricovero e un 5-10 per cento di terapia intensiva. Quindi, come dimostra anche la differenza tra il tasso di mortalità nella provincia di Hubei (2,5 percento) e fuori (0,7 per cento), la mortalità resta contenuta finché non si raggiunge il collo di bottiglia del sistema sanitario. Finché, cioè, si riescono a tenere i numeri bassi, così da garantire le cure necessarie a tutti, e non si hanno migliaia o milioni di contagiati contemporaneamente come a Wuhan. La diffusione di una normale influenza stagionale, che può raggiungere in Italia anche 6-8 milioni di persone, non possiamo permettercela.
Se invece – ed è la seconda ipotesi – l’Italia dovesse conservare il suo primato europeo di contagi, se non dovessero emergere focolai in altri Paesi Ue, allora andranno fatte altre considerazioni. Per esempio, che non siamo riusciti a intercettare e isolare prontamente i casi importati (pochi controlli, pochi test, poche quarantene?) e, quindi, a circoscriverne movimenti e contatti nel periodo più delicato e decisivo, ovvero circa 3-4 settimane fa. E, dunque, il virus ha iniziato a girare nel nostro Paese senza che il contagio per innescarsi avesse bisogno di contatti con casi importati dalla Cina. Nemmeno questa ipotesi, ad oggi, si può escludere, tanto che ancora non siamo riusciti a risalire ai cosiddetti pazienti zero dei focolai in Lombardia e Veneto.
Attenzione, quindi, ad essere così certi che “noi abbiamo più casi perché facciamo più controlli”, come ha ripetuto il presidente del Consiglio Giuseppe Conte (ma non solo lui), implicitamente insinuando che gli altri Paesi “barano”. Il Servizio sanitario britannico, per esempio, ha comunicato nei suoi bollettini di aver effettuato fino al 22 febbraio oltre 6 mila test, a fronte di 9 casi positivi. Prima dell’esplosione dei focolai nel lodigiano e in Veneto, in Italia ci risultano solo una settantina di test eseguiti allo Spallanzani. E mentre in Germania, Francia e Regno Unito i casi positivi salivano rispettivamente a 16, 12 e 9, in Italia per tre settimane siamo rimasti fermi ai due turisti cinesi ricoverati allo Spallanzani. Allora nessuno si chiedeva perché solo due: forse, qualche domanda sui controlli avremmo dovuto porcela anche in quei giorni… Gli altri Paesi potrebbero aver effettuato molti più test di quanti ne abbia eseguiti l’Italia prima che scoppiassero i focolai, concentrandosi sulle persone rientrate dalla Cina per scovare e isolare prima possibile i casi di importazione.
In ogni caso, a prescindere che sia vera l’una o l’altra ipotesi, la gravità della situazione di oggi dimostra che l’isolamento precauzionale di chiunque, per qualsiasi motivo, rientrasse da qualunque zona della Cina era una misura di assoluto buon senso, necessaria sebbene forse non sufficiente, da adottare prima possibile proprio nel periodo più delicato, quello che purtroppo abbiamo già alle nostre spalle. C’era un piccolo problemino, però: erano i partiti di opposizione a chiedere misure e controlli più rigorosi; ed erano i governatori delle Regioni del nord a proporre che non rientrassero a scuola prima di 14 giorni bambini e ragazzi, ovviamente di qualunque nazionalità, di ritorno dalla Cina. Immediatamente, dagli esponenti della maggioranza, dalla stampa e dagli influencer, dai sindaci e dai governatori di sinistra sono scattate le accuse di discriminazione e l’allarme psicosi. E persino un noto virologo come Roberto Burioni, non certo un “sovranista”, anzi fino a ieri idolo della sinistra “competente”, si è preso del “fascioleghista” per aver proposto le quarantene.
A frittata fatta, “paghiamo il fatto di non aver messo in quarantena da subito gli sbarcati dalla Cina. Abbiamo chiuso i voli, una decisione che non ha base scientifica, e questo non ci ha permesso di tracciare gli arrivi, perché a quel punto si è potuto fare scalo e arrivare da altre località”, ha dichiarato a La Stampa il virologo, membro dell’executive board dell’Oms, Walter Ricciardi, aggiungendo che invece Francia, Germania e Regno Unito “hanno messo in quarantena i soggetti a rischio”.
Gli Stati Uniti hanno fatto di più: vietato l’ingresso a tutte le persone che negli ultimi 14 giorni sono state in Cina continentale e quarantena obbligatoria a casa per tutti i cittadini americani di ritorno. Negli altri Paesi europei nessuna quarantena obbligatoria, ma “raccomandazione” di restare a casa e obbligo di comunicare alle autorità sanitarie spostamenti e contatti in Cina e luoghi di permanenza nei 30 giorni successivi all’atterraggio.
Tant’è che ieri Parigi ha deciso di estendere anche ai suoi cittadini di ritorno dalla Corea del Sud e da Lombardia e Veneto la raccomandazione di evitare di uscire di casa se non indispensabile, e ordinato a bambini e ragazzi di ritorno dalle due regioni italiane di non recarsi a scuola prima di 14 giorni.
In Italia no, non si poteva: siccome la richiesta arrivava dai leghisti, governo e stampa allineata l’hanno buttata sul razzismo, salvo poi dover correre (parzialmente e tardivamente) ai ripari. Sono trascorse così tre settimane a discutere se fosse discriminatorio o violasse il diritto allo studio lasciare a casa per 14 giorni bambini e ragazzi, cinesi e non, di ritorno dalla Cina. Giorni che a ripensarci oggi, con centinaia di contagiati e 7 morti, appaiono surreali, ridicoli. Appelli a mangiare nei ristoranti cinesi, foto con involtini primavera in bocca, abbracci con amici cinesi, dichiarazioni di amicizia tra i popoli e di antirazzismo. Tutti – politici, giornali e talk show – sembravano preoccuparsi più di insignificanti (e a volte fake) episodi di discriminazione nei confronti della comunità cinese che della pericolosità del virus e della inaffidabilità dei numeri ufficiali provenienti da Pechino e dall’Oms – di cui invece si parlava ormai apertamente anche sui più autorevoli organi di stampa internazionali. Giorni culminati addirittura con una visita del presidente della Repubblica Mattarella in una scuola di Roma ad alta frequentazione di bambini cinesi. Per dimostrare cosa? Quanto fosse ingiustificata e discriminatoria la richiesta di tenere a casa per 14 giorni bambini e ragazzi di “qualunque nazionalità” di ritorno dalle zone della Cina colpite dall’epidemia.
Ora, oltre al danno, la beffa. Non hanno voluto disporre l’isolamento di chi rientrava dalla Cina, non hanno predisposto sufficienti controlli e raccomandazioni, si sono preoccupati di non alimentare psicosi e discriminazioni in ossequio all’ideologia del politicamente corretto, e ora accusano di sciacallaggio chi gli rimprovera sottovalutazioni ed errori. Ieri sera il presidente Conte ha avuto persino la faccia tosta di prendersela con le Regioni (“siamo pronti a misure che contraggano le prerogative dei governatori”) e addirittura con l’ospedale di Codogno, accusato di non aver seguito i protocolli e aver così “contribuito alla diffusione”, quando ci risulta che i protocolli non prevedessero il test per il coronavirus in assenza di contatti diretti o indiretti con la Cina. Ma non siamo a Pechino e Conte non è Xi Jinping, che può cavarsela epurando i funzionari locali di Wuhan.
Daniele Capezzone ha ben sintetizzato il protocollo del governo giallorosso per l’emergenza coronavirus: sottovalutare (“tutto sotto controllo”); rigettare le misure più rigorose solo perché proposte dai leghisti; disconoscere persino i “competenti” se si disallineano; a tragedia esplosa, prendersela con gli “sciacalli”.
Se fino a ieri alla richiesta di misure e controlli più stringenti si rispondeva con l’accusa di razzismo, e oggi alle critiche con lo scaricabarile e le grida allo “sciacallaggio”, gli appelli all’unità appaiono tardivi e ipocriti, da respingere al mittente. La responsabilità e la correttezza istituzionali non possono scattare a intermittenza: se governo e maggioranza sono i primi a non praticarle, non possono pretenderle dall’opposizione. Questi sono i risultati di trent’anni di delegittimazione e demonizzazione, di un Paese in guerra civile permanente. Di nuovo: non siamo in Cina. Come ha ricordato Capezzone, nelle democrazie liberali si discute con ruoli chiari. Il ruolo di chi è all’opposizione è controllare chi governa, lavorare sempre per il Paese, fare proposte, ma esercitando un costante scrutinio sul governo.