Cosa c’entra Trump con l’uccisione di Floyd? Può piacere o no, ma su economia e Cina il presidente ha visto giusto

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Che c’entra Trump? Può essere che mi sia sfuggito nella lettura della stampa progressista, come ama auto-definirsi, ma non ho visto nemmeno citato alla lontana un dato certo non irrilevante, che chiunque abbia visto qualche film americano in materia conosce benissimo, che, cioè, la polizia statale dipende dal governatore e la polizia municipale dal sindaco. Se sono brutali, corrotte, inefficienti, ne risultano responsabili politicamente il governatore e il sindaco. Se questi sono Democratici come nel caso dello Stato del Minnesota e della città di Minneapolis, quella dell’omicidio di George Floyd, saranno costoro ad essere chiamati a risponderne, senza potersela cavare con ovvie, se pur vivaci, deplorazioni. Ma non per caso questo si è ripetuto in altri Stati e metropoli, con governatori e sindaci dello stesso colore, che hanno visto gesti di violenza gratuita da parte di poliziotti, secondo un copione ben noto, ingiustificabile, ma certo non imputabile all’inquilino della Casa Bianca.

Si accusa Trump di aver creato o almeno accentuato un clima di divisione, che ha finito per rimettere in moto la faglia profonda della storia americana, quale data dalla presenza di una forte minoranza di afroamericani. Ma anche a prescindere dal fatto che con questa traumatica eredità hanno dovuto farci i conti anche presidenti come Clinton e Obama, senza riuscire ad andare molto oltre a discorsi alati e a interventi episodici, non bisogna dimenticare la lunga strada percorsa da quando, decenni fa, una ragazza di colore si rifiutò di alzarsi da un posto in autobus riservato ai bianchi.

Certo Trump ha espresso l’intento di chiamare l’esercito, ma in molte grandi città c’erano in corso sommosse, con saccheggi, incendi, blocchi stradali, deplorate unanimemente dagli stessi famigliari di Floyd; ma tali da costringere a mobilitare la Guardia nazionale e a decretare il coprifuoco, con la necessità di mettere in sicurezza la stessa Casa Bianca. La nostra informazione progressista vi ha dedicato poca attenzione, facendo circolare la tesi complottista, per cui la fiammata violenta sarebbe stata solo una infiltrazione da parte di una destra estrema, ovvero la tesi giustificazionista, per cui sarebbe stata unicamente una prevedibile reazione a fronte di una repressione secolare.

Come sempre il problema centrale sul breve-medio periodo resta quello dello sviluppo, perché un suo rallentamento, come appunto si è verificato col coronavirus, finisce per colpire inevitabilmente quelle minoranze, bianche e nere, che sono di gran lunga più esposte in termini di lavoro precario e di basso reddito. La rabbia sociale, che come il Covid-19 non conosce confini geografici, finisce per accentuare la lotta fra le componenti più deboli, che, laddove ci sono differenze etniche pronunciate, tende ad assumere una connotazione razzista, non solo negli Stati Uniti, ma, tanto per parlarci addosso, anche in Italia, basti pensare alla forte prevenzione nei confronti degli immigrati extra-comunitari.

Credo che questo l’abbia ben presente lo stesso Trump, che infatti punta tutto sulla riapertura dell’economia, certo in funzione della rielezione, ma consapevole che una economia più forte, con la sua ricaduta occupazionale e sociale positiva, restituirebbe una immagine meno conflittuale della sua figura. Il che non sfugge certo alla opposizione più radicale e prevenuta, ne rende testimonianza la vicenda del New York Times, che, avendo pubblicato gli ultimi dati sull’occupazione, testimoni di un inizio di ripresa, si è visto invaso dalle proteste di decine di migliaia di lettori, per aver così favorito la campagna elettorale di Trump.

Trump può piacere o no, ma dovrebbe essere valutato non nello stile comunicativo, che dopotutto io trovo preferibile nel suo sanguigno ma maledettamente franco modo di esprimersi a quello liquoroso ed elusivo del nostro presidente del Consiglio; ma nel ruolo giocato a livello mondiale, con in vista il nostro interesse nazionale e, perché no, europeo. In un mondo ritornato bipolare, con un protagonista vecchio, gli Stati Uniti, e uno nuovo, la Cina, di gran lunga più popoloso, compatto, aggressivo, espansionista rispetto al precedente, cioè una Urss ridimensionatasi a Russia, bisogna stare molto attenti alle effettive politiche da perseguire sulla scena internazionale. A prescindere dalla nostra scontata giaculatoria di fedeltà alla Nato, il che vuol dire alla copertura difensiva americana, la ossessiva polemica coltivata nei confronti della presenza imperialistica statunitense, accusata di essersi autopromossa a gendarme universale, anche ai tempi dei due ultimi presidenti democratici, si è completamente rovesciata. L’accusa ora mossa a Trump è di aver inaugurato una politica isolazionista, così da lasciare un vuoto in Medio Oriente che l’Europa si è rivelata totalmente incapace di coprire, priva com’è di qualsiasi forza militare unitaria, come ben testimonia la vicenda libica da considerare tutta a perdere per l’Italia.

D’altronde, Trump è stato l’unico in grado di far la voce grossa con la Cina, non solo riguardo i ritardi nel dare l’allarme e fornire informazioni sull’epidemia di coronavirus, dai costi umani ed economici incalcolabili, ora ammessi a fatica anche dalla Oms, giustamente attaccata per la sua dipendenza dalla grande potenza asiatica. Ma, l’ha fatta, in compagnia della sola Gran Bretagna, anche nei confronti dalla repressione brutale della polizia ad Hong Kong, che certo risulta incomparabilmente più grave sia dal punto di vista umano che politico, perché trattasi della messa in prigionia di un intero popolo. Chi ha sentito che l’Europa si lasciasse sfuggire qualcosa, se non un patetico balbettio?

Ricordo il disprezzo intellettuale con cui era circondato Reagan, considerato un attore dotato di poco talento, arrivato già molto al di sopra del suo potenziale coprendo il ruolo di governatore della California. E pure venne eletto e rieletto da un popolo che non è tanto schizzinoso come siamo noi, per cui se un signore ha una cattedra può benissimo essere scelto, dopo un rapido incontro in una camera d’albergo, dai suoi due vicepresidenti, un precedente costituzionale certo estremamente originale. Naturalmente quella cattedra serve anche a compensare il più che modesto livello culturale di molti ministri, che non finirebbero il loro apprendistato a danno dei cittadini neppure se restassero incardinati sulla sedia fino al fatidico 2022.

Cina e Stati Uniti sono ora allineati sui blocchi di partenza, da cui stanno per scattare in una competizione al limite delle loro capacità. Non c’è l’Europa che sta ancora discutendo su dimensione e forma del suo intervento, senza tener conto che il fattore tempo è ormai assolutamente determinante, perché, se parti in ritardo, sei condannato ad inseguire qualcun altro che ti distanzia sempre più.

P.s. Quanto al caso di George Floyd, sarebbe bene che si distinguesse fra il suo valore simbolico evocativo e il suo rilievo penale. Il primo è affidato alla memoria collettiva di una minoranza discriminata che giunta ad un punto di rottura, esplode anche in maniera violenta; il secondo è rimesso ad un giusto processo, cui anche il poliziotto di Minneapolis ormai condannato dalla vox populi per omicidio volontario aggravato, ha diritto.

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