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Cosa significa l’uscita di Bolton e perché è una grave perdita per Trump

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L’ex consigliere per la sicurezza nazionale era l’anima jacksoniana dell’amministrazione Trump

Era nell’aria, ma le decisioni del presidente Trump sembrano sempre fulmini a ciel sereno, probabilmente perché prese di impulso dopo la classica goccia che fa traboccare il vaso. A saltare stavolta è il consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton. A far perdere definitivamente la pazienza al presidente potrebbe essere stata, come riportano alcuni media Usa, una discussione tra i due sull’invito di rappresentanti dei talebani a Camp David per chiudere l’accordo sull’Afghanistan – poi fatto saltare dallo stesso Trump dopo una serie di attentati – proprio alla vigilia dell’11 settembre.

Ma anche l’intenzione del presidente Usa, confermata proprio ieri dal segretario di Stato Pompeo, di incontrare il presidente iraniano Rohani alla prossima apertura dell’assemblea generale dell’Onu “senza alcuna precondizione”. Un’intenzione che Bolton avrà certamente contrastato con tutte le sue forze, anche perché da Teheran non è giunto alcun segnale di ravvedimento sulle sue attività malevole in Medio Oriente. Anzi, la sfida aperta nel Golfo Persico e l’ultima provocazione alla Gran Bretagna – far arrivare al regime di Assad il carico della petroliera Grace 1 appena dissequestrata da Gibilterra – indicano il contrario.

Ma i punti di disaccordo con Bolton erano ormai molteplici e si erano accumulati nel tempo, di crisi in crisi. Dall’Iran (il consigliere aveva insistito per una rappresaglia contro i Pasdaran dopo l’abbattimento del drone Usa, attacco annullato all’ultimo momento dal presidente) alla Corea del Nord (era stato contrario all’incontro-passeggiata di Trump con il leader nordcoreano Kim Jong Un nella zona demilitarizzata), dal Venezuela (dove Bolton avrebbe spinto per un intervento militare per rovesciare Maduro) all’Afghanistan (contrario ai colloqui di pace con i talebani, era stato marginalizzato sul dossier).

Ma più che il disaccordo in sé, a irritare Trump potrebbe essere stata la tendenza di Bolton a non piegare le sue convinzioni nemmeno dopo la decisione del presidente, non mancando di sottolinearle persino con qualche sua uscita pubblica. L’ultima settimana di agosto, mentre a Biarritz Trump proponeva di riammettere la Russia nel consesso del G7, Bolton era a Kiev a rendere omaggio al memoriale dei caduti ucraini nel conflitto con Mosca, e la cosa non è passata certo inosservata. Pare si fosse anche rifiutato di rappresentare in tv le posizioni dell’amministrazione su Russia e Afghanistan. L’inflessibilità è sempre stata il principale pregio, e al tempo stesso il limite, di Bolton, la sua indisponibilità al compromesso con le esigenze a volte inderogabili della politica, come quella, per esempio, di avviare verso una chiusura il decennale impegno Usa in Afghanistan o in Siria. Esce però proprio per questo a testa alta, rimanendo se stesso.

Da una parte, licenziando Bolton il presidente Trump ha riaffermato la sua concezione di politica estera. Su una cosa infatti bisogna definitivamente chiarirsi le idee: Trump vuole accordi migliori, nuovi equilibri nell’interesse degli americani, non guerre, non rovesciare regimi. E pare incredibile come la rappresentazione dei media mainstream sia ancora, dopo tre anni alla Casa Bianca, così distorta e fuorviante, quando già da candidato lo scandiva a chiare lettere: accordi migliori, non guerre. Il suo modo di procedere ondivago, il suo zigzagare tra un approccio minaccioso e uno addirittura adulatorio nei confronti degli altri leader, alcuni dei quali impresentabili, fa parte delle sue idee sull’arte del negoziato, del suo “The Art of the Deal”. Non si trovano qui le contraddizioni del presidente Usa. Se intravede la possibilità di un buon accordo, non lo vedrete esitare a passeggiare su un campo da golf con il diavolo in persona.

In quest’ottica non devono sorprendere nemmeno i frequenti avvicendamenti all’interno dell’amministrazione. Trump è solito scegliersi le persone per gli obiettivi specifici che sono in grado di ottenere, per poi sostituirle a seconda del mutare delle necessità, un obiettivo alla volta. Ci sta, quindi, che avesse scelto Bolton quando c’era da mettere in piedi una politica di forte pressione e minaccia nei confronti di Teheran (e Mosca), ma che ora, valutando sia arrivato il momento di ammorbidire la posizione, si voglia affidare a persone con diverse capacità. La stessa logica vale per la ripresa dei negoziati con Kim e i talebani.

Ma d’altra parte, per l’amministrazione Trump l’uscita di Bolton è una grave perdita. Bolton ha una profonda conoscenza delle dinamiche internazionali, del linguaggio della forza, sa riconoscere nitidamente gli interessi di sicurezza nazionale di lungo termine. Non è un neocon, ma un nazionalista. Il suo è un approccio muscolare, jacksoniano, che si fonda non su imperativi morali, sull’esportazione della democrazia, ma sull’interesse nazionale degli Stati Uniti, sulla riaffermazione del loro ruolo non contendibile di unica superpotenza. E proprio questo lo rendeva perfetto per l’America First di Trump, sarà difficile sostituirlo. Quasi perfetto, perché il rovescio della medaglia era che il suo approccio non escludeva il regime change (sia pure non in chiave “wilsoniana”, di ingerenza democratica), il rovesciamento dei regimi che rappresentano una sfida alla credibilità della supremazia e della deterrenza Usa, mentre il presidente ha il terrore di restare impelagato in nuove guerre, avendo promesso ai suoi elettori esattamente il contrario, cioè di uscirne.

Qui sta la vera contraddizione della politica estera trumpiana. Il suo approccio non ideologico, pragmatico, quasi cinico, presenta degli indubbi vantaggi, ma anche dei limiti. Un conto è voler evitare di comportarsi da “poliziotti” e “giudici morali” del mondo, voler riaffermare il principio della sovranità nazionale, un altro è escludere, persino come ultima ratio e pistola sul tavolo, non solo interventi militari ma anche politiche aggressive che possano portare al crollo di regimi che rappresentano una minaccia. Diventa difficile costringere rough states come Iran e Corea del Nord, o rivali strategici come la Cina, ad accettare nuovi accordi ed equilibri, se non si sentono minacciati nell’unica cosa cui questi regimi tengono: non il benessere dei loro popoli, ma la permanenza al potere. Difficile far avanzare l’agenda America First, correggere quegli assetti dell’ordine internazionale penalizzanti per gli interessi americani, senza riaffermare la leadership globale Usa e, quindi, senza esercitare forme di hard power.

Dovrebbe destare preoccupazione, infatti, che l’uscita di Bolton sia stata accompagnata dal giubilo dei più acerrimi nemici interni del presidente Trump, tra i Democratici e gli opinion leader liberal. È una sintesi azzeccata quella di Enzo Reale su Twitter: “Tutti contenti che Bolton non c’è più. La dimostrazione che c’è bisogno di Bolton”.

Quali cambiamenti dobbiamo aspettarci quindi nella politica estera dell’amministrazione Trump con l’uscita di Bolton? Probabilmente un nuovo tentativo di negoziato con la Corea del Nord e in Afghanistan, un’apertura alla Russia e una postura più dialogante con l’Iran, sia pure senza alleggerimento delle sanzioni. Da tenere conto che liberarsi di Bolton era uno dei principali obiettivi cui miravano il regime iraniano e i suoi sostenitori in Europa. Se ora Trump incontra il presidente Rohani, la lettura degli eventi a Teheran sarà che ha dovuto scaricare il suo consigliere per incontrarlo, quindi un cedimento. Ad un anno dalle presidenziali del 2020, gli avversari dell’America, da Teheran a Pechino, da Pyongyang a Mosca, passando per molte capitali europee, sono alla finestra, pronti ad approfittare di un presidente troppo desideroso di un accordo da sbandierare che lo aiuti ad essere rieletto. E l’uscita di Bolton è probabilmente il segnale che aspettavano.

Nessun cambio di rotta, invece, su Venezuela e Cina. Il confronto con Pechino è destinato a durare, sia pure con alti e bassi, tregue e strappi, tanto da far parlare ormai di nuova Guerra Fredda, e bisogna dare atto a Trump di averlo aperto quando ormai sembrava che nessuno avesse il coraggio di farlo. Ma quella con la Cina è una partita ancor più difficile da vincere per gli Stati Uniti e l’Occidente. Il modello economico sovietico era folle, quello cinese, che coniuga capitalismo e autoritarismo, è molto più efficiente, non è destinato a franare sotto i colpi della competizione e della corsa agli armamenti. E l’apertura commerciale, lungi dall’aver determinato una liberalizzazione del sistema politico ed economico cinese, ha permesso invece a Pechino di insinuarsi nelle divisioni e nelle rivalità occidentali, di rendersi indispensabile prima come luogo dove delocalizzare per produrre a costi più bassi, poi come mercato di esportazione. Ma questo sarà tema di altri approfondimenti.