I grandi social network, sempre più al centro dell’informazione e del dibattito pubblico, sono sempre meno neutrali e sempre più inclini alla censura (peraltro a sproposito), con inaccettabili ingerenze che casualmente si sono intensificate in periodo di Covid e di campagna elettorale americana. Da un lato, i vari Facebook, YouTube (Google) e Twitter intervengono censurando dibattiti, opinioni e dichiarazioni, oltre che di utenti “scomodi”, persino di cariche istituzionali, ovviamente solo di una certa parte, per esempio i tweet di Trump sulla necessità di porre fine alle rivolte nelle città americane, ma non quelli della Guida Suprema iraniana Khamenei su Israele (“un tumore canceroso maligno che deve essere rimosso e debellato: è possibile e accadrà”). Dall’altro, non fanno nulla per contrastare i veri e gravissimi problemi della Rete (come la diffamazione incontrollata e i profili falsi utilizzati in maniera malevola) e per ragioni di profitto si prostrano volentieri agli appetiti dei peggiori regimi mondiali per quanto riguarda il rispetto del diritto all’informazione e della libertà di espressione.
Dopo aver fatto piazza pulita di ogni visione difforme da quella “giusta” sulla gestione della pandemia e di ogni idea diversa da quelle traballanti dell’Organizzazione mondiale della sanità (che, oltre a non averne azzeccata una, ha già cambiato innumerevoli volte le proprie infallibili posizioni, quindi a rigor di logica sarebbe la prima a dover essere censurata e silenziata), ora Big Tech, apertamente schierata, si sta “occupando” delle presidenziali americane.
Facebook ha iniziato a censurare gli annunci pubblicitari politici che vengono “bocciati” al fact checking. Ma non è tutto, perché, al di là dei fortissimi dubbi sulla legittimità della pratica e sull’imparzialità dei verificatori, in almeno due recenti casi gli annunci sono stati giudicati “perlopiù falsi” da PolitiFact e bloccati dal social network nonostante le affermazioni contenute fossero state riconosciute come vere. È accaduto a uno spot pro-Trump che cita direttamente Biden che dichiara “Se mi eleggerete, le vostre tasse saranno aumentate, non ridotte” e avverte che il suo piano aumenterà le tasse “per tutti i gruppi di reddito”. A parte il vulnus sotteso al silenziare il dibattito politico, lo spot che fa capo ad America First era davvero “perlopiù falso”? No, perché leggendo il report dello stesso fact checking si deduce che secondo alcuni esperti il piano di Biden si tradurrà effettivamente in tasse più elevate per tutti i gruppi di reddito. Dunque, quale sarebbe il problema dell’annuncio? Una fantomatica mancanza di “contesto” (peraltro facilissimo da fornire, ammesso e non concesso che sia ragionevole pretenderlo in una pubblicità di 30 secondi) e il rischio che possa dare una “impressione sbagliata” su ciò che Biden intendesse, visto che il piano colpirebbe maggiormente i redditi alti rispetto a quelli bassi. Insomma, dall’arrampicata sugli specchi (o meglio, sugli schermi) emerge che lo spot dice cose vere, ma è meglio che non si sappiano, altrimenti gli americani (il 70 per cento dei quali usa Facebook e il 40 per cento dei quali lo usa per informarsi) potrebbero confondersi e finire per votare il candidato sbagliato.
America First – che al Daily Wire ha assicurato che continuerà a lottare contro i fact checker di parte e per difendere uno dei più fondamentali diritti costituzionalmente protetti durante un periodo cruciale come quello di un’elezione presidenziale – non è l’unica organizzazione conservatrice censurata dalla piattaforma. In un altro episodio recente, sempre con il giochino del “contesto mancante e potrebbe fuorviare le persone”, Facebook ha censurato un annuncio dell’American Principles Project che affermava che l’apertura agli atleti transgender prevista dall’Equality Act appoggiato dai Democratici “distruggerà gli sport femminili”.
In casi come questo la massima propinata dai ben (de)pensanti è sempre qualcosa come: “Sono compagnie private, possono fare quello che vogliono. Se non ti vanno bene le loro regole, puoi sempre andare altrove”. Chissà cosa direbbero gli stessi ben (de)pensanti se ipoteticamente una compagnia privata di trasporti, essendo libera di fare ciò che vuole in quanto compagnia privata, decidesse di escludere dal servizio, per esempio, i neri. E i social network, che pur essendo privati hanno un ruolo pubblico preminente, trasportano ormai le idee e a ben vedere le vite di molte più persone di quante non vengano prese in carico da tutte le compagnie di trasporti del globo messe assieme. Il piccolo dettaglio è che le stanno trasportando sempre più con metodi che poco hanno da invidiare a quelli orrendi dell’apartheid.