All’indomani del voto sulla Brexit del 23 giugno 2016, al di qua della Manica è stato subito additato come “colpevole” del risultato, come capro espiatorio, l’allora primo ministro britannico David Cameron, semplicemente per aver offerto ai suoi concittadini l’occasione di esprimersi. Ricordiamo i commenti durante le dirette televisive di quella notte. Celebrazione della democrazia britannica prima della mezzanotte, finché sembrava prevalere il Remain; anatemi e condanne subito dopo il sorpasso del Leave, fino a parlare nei giorni successivi di “abuso della democrazia”.
Ma Cameron aveva convocato il referendum, mantenendo un impegno assunto con gli elettori, perché fallito il negoziato con Bruxelles era probabilmente l’unico modo per affrontare il problema dell’anti-europeismo crescente nel suo Paese e in particolare nel suo partito. Comporta dei rischi, ma è nella tradizione politica britannica affrontare i problemi, anziché eluderli per ritrovarseli ingigantiti qualche anno più tardi. Ricorda qualcuno questa seconda modalità?
Eppure, come ricordato in numerose occasioni, presentando il libro che ho scritto con Daniele Capezzone, “Brexit. La Sfida”, sono convinto che Cameron l’avrebbe anche vinto il referendum, se non fosse stato per la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso. E in questo caso la goccia che ha fatto traboccare il vaso colmo di anti-europeismo dei cittadini britannici è stata, proprio durante la campagna, la politica autolesionista della cancelliera tedesca Angela Merkel di apertura dei confini ai migranti, che insieme alle scene di Calais ha confermato la percezione di un’Europa totalmente fuori controllo.
Come ho avuto modo di scrivere all’indomani delle elezioni tedesche del settembre scorso, temo che gli storici saranno meno generosi con la signora Merkel di quanto si direbbe dalle cronache degli ultimi anni, e un po’ più generose con David Cameron, sotto i cui governi il Regno Unito ha conosciuto tassi di crescita superiori a quelli tedeschi e dei paesi del G7, al tempo stesso più che dimezzando il rapporto deficit/Pil ereditato e tagliando le tasse (l’aliquota sulle imprese dal 28 al 20 per cento).
Certo, Angela Merkel ha guidato il suo Paese con abilità, equilibrio da democristiana, garantendo stabilità alla crescita economica, espansione commerciale e leadership in Europa. Va però ricordato che le impopolari riforme economiche e sociali che hanno rimesso in moto la locomotiva tedesca recano in calce la firma dell’ex cancelliere Gerard Schröder. E che Angela sembra aver conquistato il trono di leader dell’Ue più per longevità politica, ovvero per esclusione, che per i suoi successi europei. Non si può certo affermare che sotto la sua leadership l’Unione europea abbia affrontato e superato brillantemente crisi come quella finanziaria del 2008, quella del debito greco del 2010 o quella dei migranti del 2015. Né che abbia compiuto sensibili passi avanti dal punto di vista dell’integrazione, dell’efficienza istituzionale e della sua proiezione nel mondo. Anzi, ha perso uno dei suoi membri più importanti, il Regno Unito (la seconda economia e la prima potenza militare dell’Unione), per responsabilità non solo dei leader britannici ma certamente anche europea e della Merkel in particolare.
E infatti nei giorni scorsi uno storico si è già pronunciato in questa direzione. Angela Merkel è stata un “disastro politico”, si è spinto a scrivere nella sua column settimanale sul Times lo storico Niall Ferguson, anch’egli individuando nella politica sui migranti “la madre di tutte le cantonate” prese dalla cancelliera.
Eppure, è la “beniamina” dei mainstream media europeisti. Nel novembre 2015 l’Economist l’ha definita “l’indispensabile europea”. Un mese dopo “persona dell’anno” per il Financial Times. Time Magazine l’ha proclamata “cancelliera del mondo libero”, in opposizione al presidente Usa Donald Trump.
“Incredibili errori di valutazione”, secondo Ferguson, per una leader politica che solo pochi mesi prima aveva commesso “il più grande singolo errore nella storia del dopoguerra tedesco”. Dopo aver spiegato a una giovane profuga palestinese in lacrime che non è possibile accogliere tutti, “non possiamo gestirlo”, nel settembre 2015 la Merkel ha aperto i confini tedeschi ai profughi siriani provenienti dalla rotta balcanica, trovandosi costretta pochi giorni dopo a tornare sui suoi passi. Una “rara piroetta politica di 360 gradi”.
Dall’inizio del 2015 la Germania ha accolto 1,38 milioni di richiedenti asilo. Un terzo i siriani, il 60 per cento maschi, tre su quattro meno che trentenni. Solo metà delle richieste sono state accolte, ma solo 80 mila dell’altra metà sono stati reimpatriati. L’86 per cento dei rifugiati è di religione islamica.
L’impatto di medio-lungo termine è che la popolazione musulmana in Germania, dal 6 per cento nel 2016 potrebbe balzare ad una percentuale compresa tra l’8,7 e il 19,7 per cento entro il 2050 (stime del Pew Research Center).
Quali le conseguenze nel breve termine? Un sensibile aumento del crimine e un vero e proprio sisma politico che rischia di travolgere la stabilità tedesca. Secondo uno studio commissionato dal governo all’Università di scienze applicate di Zurigo, basato su dati del Land della Bassa Sassonia, i richiedenti asilo sono responsabili di un aumento dei crimini violenti, che erano diminuiti del 22 per cento tra il 2007 e il 2014, e che sono tornati a crescere di oltre il 10 per cento nel 2016. Oltre il 92 per cento di tale crescita è dovuta ai nuovi arrivati. In 9 omicidi su 10, e in tre casi su quattro di lesioni gravi, le vittime sono altri migranti. Ma nel 70 per cento delle rapine e nel 58,6 per cento dei casi di violenza sessuale le vittime sono tedesche.
L’impatto sul sistema politico tedesco è sotto gli occhi di tutti. La destra nazionalista dell’AfD terzo partito con il 12,6 per cento alle elezioni politiche del settembre scorso. E gli ultimi sondaggi la danno in crescita al 15. La Germania è ancora senza un governo e avrà probabilmente una riedizione della GroKo tra due partiti, CDU e SPD, indeboliti e puniti dall’elettorato proprio per l’esperienza precedente.
Secondo Ferguson, la cancelliera è responsabile di aver ridotto la Germania “in una condizione di pericolosa debolezza geopolitica e militare”. “Ha contribuito in misura significativa alla malagestione europea delle rivoluzioni arabe, innescando l’immigrazione di massa attraverso il Mediterraneo”. E a rendere la crisi finanziaria dei Paesi del Sud Europa peggiore, “massimizzando l’incertezza sul futuro dell’euro”.
Anche per lo storico scozzese la Merkel è “responsabile per la Brexit quanto i politici britannici”, perché “la sua sottovalutazione della minaccia posta dalla campagna per il Leave l’ha portata ad offrire a David Cameron concessioni ridicole sulla libertà di circolazione delle persone”. “Qualsiasi cosa finirà per significare la Brexit per il Regno Unito”, Ferguson si dice “abbastanza certo che si rivelerà un male per l’Europa e per la Germania”.
In Germania, e altrove in Europa occidentale (in attesa di vedere in che Italia ci sveglieremo la mattina del 5 marzo), la crescita di partiti “populisti” sia a destra che a sinistra sta obbligando partiti di centrodestra e di centrosinistra a mettere da parte le loro differenze e a unire le forze in governi di coalizione e di “larghe intese”. Eppure, ogni anno che passa la loro quota di consensi declina. Che non sia questa la risposta giusta ai cosiddetti “populismi”?
E’ opinione comune, osserva in conclusione Ferguson, che grazie al suo tatticismo la Merkel se la caverà anche stavolta. Ma viviamo in tempi in cui l’opinione comune dei cosiddetti “esperti” si scontra spesso contro il muro della realtà.