La natura totalitaria del regime di Pechino, il suo rifiuto di informare i suoi stessi cittadini nelle prime cruciali settimane, hanno impedito di contenere il contagio del coronavirus
Il solo fatto che un regime totalitario come quello cinese avesse adottato misure estreme, come l’isolamento di decine di milioni di persone e il blocco dei viaggi interni, dal sicuro impatto devastante in termini economici e di immagine, avrebbe dovuto destare il sospetto che la situazione fosse molto più seria di quanto non dicessero i numeri ufficiali. Già il 24 gennaio erano dieci le città isolate per un totale di circa 41 milioni di persone, a fronte di “solo” 26 vittime e 897 casi confermati.
I numeri ufficiali – presi naturalmente per oro colato dai nostri “competenti” e media mainstream, subito pronti a spiegarci che “per fortuna il tasso di mortalità è basso, più basso della Sars” – erano assolutamente poco credibili rispetto alle misure, drastiche e imponenti, che Pechino stava adottando, anche se i buoi, come vedremo, erano già scappati dalla stalla.
Solo sei giorni dopo, il 30 gennaio, l’Oms decide di dichiarare l’emergenza sanitaria globale, pur senza raccomandare restrizioni nei viaggi e nel commercio e lodando in modo imbarazzante, perché compiacente, “gli standard di risposta” della Cina. Che invece, come leggerete tra breve, ha mostrato la stessa identica criticità emersa con la Sars: la natura stessa del regime.
L’atteggiamento sia delle autorità che dei media italiani vira improvvisamente dalla sottovalutazione all’allarmismo non appena due turisti cinesi a Roma vengono ricoverati all’ospedale Spallanzani: chiusura dei voli da e per la Cina, emergenza nazionale, decine di pagine dei giornali per spiegare che non bisogna allarmarsi, quando, di fatto, è l’esatto contrario il messaggio che esce.
Ebbene, in queste ore abbiamo da fonti autorevoli la certezza che i numeri di Pechino, su cui l’Oms, l’Ecdc e tutte le autorità sanitarie hanno basato per settimane le loro valutazioni, sono del tutto inaffidabili. Che ciò sia dovuto a una deliberata mancanza di trasparenza da parte delle autorità o alle carenze delle strutture sanitarie cinesi – probabilmente una combinazione di entrambi i fattori – poco cambia.
Oggi sappiamo, grazie a uno studio del New England Journal of Medicine pubblicato il 29 gennaio, che i primi casi di trasmissione da uomo a uomo del coronavirus risalgono a metà dicembre dello scorso anno, mentre le autorità di Pechino non hanno confermato la trasmissione da uomo a uomo fino al 20 gennaio.
Sono trascorse numerose settimane dalla prima infezione, risalente ai primi giorni di dicembre, all’annuncio di una “polmonite misteriosa”, il 31 dicembre. Il 10 gennaio, quindi circa un mese dopo il primo caso, secondo la ricostruzione del corrispondente di Repubblica in Cina, a Pechino avevano già isolato il coronavirus, condiviso il profilo genetico con l’Oms e distribuito i test. Applausi. Purtroppo, però, le autorità decidono di minimizzare, nascondere e censurare, arrivando ad arrestare persino alcuni medici colpevoli di aver divulgato “false voci” sull’epidemia via chat. Per dieci giorni, fino al 20 gennaio appunto, viene negato il contagio da uomo a uomo e non scatta alcuna misura di prevenzione straordinaria, i medici visitano ancora senza protezione, i casi dichiarati sono fermi ad alcune decine, i cittadini di Wuhan e del resto della Cina vengono tenuti per lo più all’oscuro. Ma proprio in quei dieci fatidici giorni, per le festività del capodanno cinese, si muovono da Wuhan oltre 5 milioni di persone.
Durante quei primi 20 giorni di gennaio la censura opera a pieno regime: non compare una sola parola sull’epidemia in corso a Wuhan sugli organi di stampa ufficiali del Partito comunista. Come riportato da Startmag, sul Japan Times Minxin Pei, docente universitario del Claremont McKenna College e non resident senior fellow del German Marshall Fund, ha citato i risultati di uno studio secondo cui in WeChat (la WhatsApp cinese) le menzioni dell’emergenza a Wuhan hanno registrato un’impennata tra il 30 dicembre e il 4 gennaio, salvo crollare immediatamente per un primo intervento della censura. Un secondo intervento esattamente una settimana dopo, per soffocare le accese discussioni suscitate dalle notizie che nel frattempo avevano preso a circolare in tutto il mondo.
La svolta arriva, appunto, solo il 20 gennaio. Parla Xi Jinping, viene decretata l’emergenza sanitaria e ammesso il contagio da uomo a uomo, ma inizia anche, inevitabile, lo scaricabarile sulle autorità locali di Wuhan. Ma per legge solo il governo centrale può dichiarare l’emergenza sanitaria e Pechino ci ha messo almeno dieci giorni di troppo, durante i quali si sono mosse decine di milioni di persone, all’interno del Paese e verso l’esterno. E sempre dal 20 gennaio guarda caso vira decisamente anche la narrazione del regime. Dalla negazione e la censura alla propaganda, l’epica lotta contro il virus: una mobilitazione straordinaria, milioni di persone di fatto in quarantena, nuovi ospedali in dieci giorni (una distesa di container di plastica, qui sono i nostri media che hanno lavorato di immaginazione…).
Ma è tardi, le prime cruciali settimane sono trascorse e il rifiuto delle autorità di informare tempestivamente e in modo trasparente i cittadini di Wuhan ha già alimentato la diffusione del contagio, che ha raggiunto numeri a quel punto difficilmente gestibili per chiunque.
Resta un buco temporale negli aggiornamenti sul contagio, dal momento che ogni singolo test dev’essere confermato a Pechino e ci vogliono cinque giorni. Questo il motivo “tecnico”, a cui bisogna aggiungere il fattore politico, difficile da quantificare. In ogni caso, è ragionevole presumere che i dati ufficiali in nostro possesso oggi siano già vecchi almeno di una settimana, se non di due o più.
Secondo uno studio pubblicato sulla rivista scientifica The Lancet, a fronte dei 14.500 casi ufficializzati dalle autorità cinesi fino a ieri, il numero realistico dei contagiati a Wuhan sarebbe di quasi 76 mila al 25 gennaio, sulla base della stima prudenziale di un coefficiente di trasmissione di 2,68 per ogni persona infetta e della capacità dell’epidemia di raddoppiare ogni 6,4 giorni. Secondo un altro studio pubblicato sempre su The Lancet circa una settimana fa, basato su un coefficiente di trasmissione 3, il numero reale dei contagiati potrebbe arrivare intorno ai 190 mila il 4 febbraio.
Il problema è che dalle notizie che abbiamo da fonti credibili una gran parte degli infettati non ha ricevuto assistenza e non è nemmeno stata sottoposta ai test, risultando quindi esclusa dalla contabilità ufficiale vittime-contagiati. Non è chiaro se al preciso scopo di limitare il più possibile il numero dei casi positivi, o perché i kit non bastano per tutti, le autorità cinesi hanno fortemente limitato i test per il coronavirus, effettuati solo sui pazienti più gravi, quelli con i sintomi della polmonite in atto. Molti decessi sono stati registrati come polmoniti generiche, senza effettuare il test, e per mancanza di posti letto molte persone probabilmente infette sono state rispedite a casa.
Il calcolo di questi studi pubblicati su The Lancet si basa su modelli matematici elaborati prendendo in considerazione tutti questi fattori, la velocità di propagazione del virus e quante persone sono uscite da Wuhan prima che fosse imposto il cordone sanitario.
Insomma, non serve ricorrere a teorie cospirazioniste per concludere che la situazione reale dell’epidemia e dei pazienti in Cina è drammaticamente più grave di quanto non emerga dai numeri e dai bollettini ufficiali. Non è da escludere che ulteriori elementi emergano nei prossimi giorni, settimane e mesi.
E che, ancora una volta, il fattore decisivo che ha impedito di contenere il contagio è il regime stesso, la mentalità interna tipica di ogni dittatura ma in particolare di quella cinese, perché niente e nessuno osi disturbare la pretesa “armonia” e la decantata stabilità del sistema, né mettere in dubbio l’infallibilità del Partito-Stato.
Come ha già spiegato Michele Marsonet qui su Atlantico, non mancheranno contraccolpi alla reputazione – interna e internazionale – del Partito comunista e anche di Xi Jinping, che al di là delle apparenze e della narrazione che riesce a imporre sui media esteri, ha a che fare con una sfiducia crescente nelle capacità del partito di guidare il Paese. Uno dei principali punti forza della propaganda di Pechino è la rivendicazione che il sistema di governo della Repubblica Popolare Cinese è più efficiente dei sistemi liberaldemocratici. Qui in Occidente fanno presa soprattutto la rapidità di realizzazione delle infrastrutture e l’innovazione tecnologica. Ma il fallimento nel contenere il coronavirus, l’ennesima dimostrazione di mancanza di trasparenza da parte delle autorità, sembrano per lo meno incrinare questa certezza. Soprattutto agli occhi del popolo cinese.