Ho appena seguito in televisione la parata militare del 2 giugno. Premetto che queste considerazioni potranno non piacere a tutti, ma che farci? Non tutti apprezzano questo genere di cerimonie, ed altri non amano le cerimonie in genere; credo sia un bene lasciarli nelle loro convinzioni, così come, almeno per ora, è ancora concesso apprezzarle.
Sentire le note del Canto degli italiani, o quelle de “La Fedelissima”, marcia d’ordinanza dei Carabinieri, o ancora quelle dell’emozionante “Flick Flock”, suonata dalla fanfara dei Bersaglieri, col loro inconfondibile passo di corsa da 180 passi al minuto, è, per molti italiani, un momento di vera emozione. Perché, a dispetto di tutto e tutti, molti di noi ancora avvertono il senso di patria, da qualche parte del cuore, che nessuna delusione politica, nessuna partigianeria, nessuna infatuazione per i più disparati schieramenti politici potrà mai annullare.
Pur con qualche piccola nota stonata, anche quest’anno, la parata è riuscita bene, soprattutto quanto a disciplina e preparazione dei rappresentanti delle nostre forze armate. Tra i politici in tribuna, non si poteva non apprezzare l’espressione bonaria e composta del presidente Mattarella, il quale – e parlo per me – pur non essendo talvolta in pieno accordo con certe sue esternazioni, riesce a trasmettermi appieno l’immagine dell’importanza della sua altissima carica di rappresentante di tutti noi.
Basta osservare con occhio attento la sua espressione facciale, il suo linguaggio dei gesti, per capire che non colgono nel segno certe critiche di stampo vagamente bakuniniano o postmoderne che vorrebbero abolire ogni forma di esaltazione dei simboli del nostro Paese, già fin troppo minimalista e trasandato su questo aspetto, come espressione della negazione di qualsiasi valore etico ai simboli che rappresentano la nostra storia.
Al contrario, se finalmente troviamo il tempo per rilassarci e liberare la mente dagli orpelli dei pregiudizi e della smania di dimostrarsi critici sempre e su tutto, la parata del 2 giugno parla ancora di quei valori di professionalità, serietà, fratellanza che non possono non suscitare rispetto per i nostri militari. È qualcosa di cui abbiamo tanto bisogno, se vogliamo non lasciar spegnere la esitante fiammella dell’orgoglio di essere italiani.
Probabilmente mi si contesterà di essere attestato su posizioni troppo legate alla superficialità e all’apparenza delle bandiere e delle insegne di reggimento, ma posso ragionevolmente affermare che è esattamente il contrario. I simboli e le cerimonie, per non parlare della sacralità di certe tradizioni militari, sono la conseguenza di un sentimento e non la loro causa.
Se la gente presente in Via dei Fori Imperiali sorride istintivamente al passaggio dei paracadutisti o dei marinai è proprio perché, più che un mero riferimento a quei simboli e a quelle bandiere, si riconosce in quegli uomini e quelle donne dai valori genuini e necessari.
Ho scritto uomini e donne del tutto a caso, come sempre, non essendo avvezzo a premettere le donne per mera correttezza politica, che ritengo una colossale scemata, allo stesso modo per cui, quantomeno, rido di chi avverta l’obbligo di regalare mimose ogni 8 marzo a parenti e colleghe, pur non rispettandole e difendendole affatto, ma solamente per adeguarsi alla untuosa moda dell’esternazione di un rispetto di facciata, che molto spesso manca proprio tra i donatori di mimose per mero conformismo.
Con due rametti di mimosa mezza secca (sono ligure e so bene che a marzo la mimosa è quasi sfiorita) mi metto la coscienza a posto e posso tranquillamente correre dall’amichetta, alla quale, ovviamente, regalo il medesimo ramazzo, nascosto in auto per ore e quindi ancor più patito. Questo l’andazzo, non neghiamolo, almeno per moltissimi italiani.
Il paragone tra l’8 marzo e il 2 giugno non è casuale, anzi potrebbe calzare benissimo. Basterebbe chiedere a certi esponenti di partiti politici, oggi sorridenti alla parata militare, soprattutto a quelli che per decenni hanno letteralmente fatto di tutto per smantellare una già zoppicante struttura militare nazionale, ritenendo ogni spesa per la difesa ed ogni compito tipicamente militare una violenza di per sé.
Andando un po’ agli estremi, sono certo che, tra i plaudenti di Via dei Fori Imperiali non sarà mancato, anche quest’anno, chi, non appena finita la parata, anzi dopo il lauto pranzo di rappresentanza che seguirà, riprenderà, già domani, a dare allegramente del fascista proprio a quel carabiniere che aveva applaudito, la prima volta che lo ritroverà mentre sta mantenendo l’ordine pubblico in una piazza qualsiasi d’Italia, quando da una parte ci saranno le forze dell’ordine e dall’altra gruppi organizzati di facinorosi in tenuta da rivolta urbana.
Si sa, partecipare a certe cerimonie, quand’anche non sia un dovere istituzionale, è, comunque, una ghiotta occasione per farsi vedere e riprendere tra “quelli che contano”, sulle giuste tribune. Devo pure annotare che qualche generale, al passaggio dei soldati, salutava un po’ “a muzzo” e soltanto gli appartenenti alla propria Arma.
E che il commento Rai, nonostante l’ausilio al microfono di un generale del quale s’intuiva l’entusiasmo sincero e il grande rispetto per le istituzioni, tendeva ad “addolcire” le mansioni tipiche dei militari, con l’inutile e ridondante sottolineatura dei loro compiti (ausiliari) di protezione civile, nel consueto solco culturale per cui la cosa più “offensiva” che possa fare un militare è intervenire sulle macerie di un terremoto o partecipare a missioni di peace keeping.
Ma è già tanto che la parata non sia stata interrotta dalla pubblicità dei pannoloni, per cui non credo di essere stato l’unico a godermela e di essermi emozionato – pensate voi che retrogrado sono – quando i bravissimi de Il volo hanno cantato (molto bene e senza svolazzi canori in stile stadio) l’Inno di Mameli.