“A Time for Choosing”, l’inno alla libertà di Ronald Reagan

Il discorso di Reagan, ancora attualissimo, ha gettato le basi del fusionismo e di una nuova anima del Gop. Goldwater perse un’elezione, ma aveva vinto il futuro

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Il 27 ottobre di sessant’anni fa Ronald Reagan pronunciò un discorso destinato a cambiare per sempre le sorti della politica statunitense, “A Time for Choosing”. L’America si avviava alle elezioni presidenziali del 1964 avendo di fronte a sé due strade inconciliabili, che nascevano da visioni radicalmente diverse sul ruolo del governo e sul suo coinvolgimento nella vita dei cittadini.

Il duello tra Johnson e Goldwater

Da un lato, la sinistra dello schieramento politico aveva abbracciato la dottrina della Great Society promossa da Lyndon B. Johnson, che si prefiggeva l’obiettivo di azzerare la povertà e le diseguaglianze attraverso il protagonismo dello Stato, la massiccia regolamentazione della sfera economica, l’incremento della spesa pubblica e la creazione di nuove agenzie federali.

Dall’altro, si faceva largo la piattaforma libertaria del fiammeggiante Barry Goldwater, senatore repubblicano dell’Arizona che si era distinto per la strenua opposizione all’eredità del New Deal e che aveva sfidato i Rockefeller galvanizzando l’ala conservatrice del suo partito. La critica che indirizzò ai liberal del Gop durante la Convention di San Francisco sarebbe rimasta immortale: “L’estremismo in difesa della libertà non è un vizio; la moderazione nella ricerca della giustizia non è una virtù!”.

Liti e divergenze nel Gop

L’entusiasmo della base repubblicana era palpabile, come si poteva evincere dalle immagini dei sostenitori di Goldwater pronti ad acclamare il loro leader. Dopo decenni di condiscendenza verso le riforme rooseveltiane, sembrava che il Gop fosse tornato a vedere in Calvin Coolidge il suo modello di riferimento. Ma l’establishment del nord-est nutriva una certa avversione nei confronti della nominee – per usare un eufemismo. Decine di funzionari si rifiutarono di sostenere Goldwater, giudicandolo alla stregua di un “eversivo” che doveva essere escluso da qualsiasi consesso civile.

Henry Cabot Lodge, candidato alla vicepresidenza con Richard Nixon nel 1960, definì la proposta goldwateriana di riallineare il Partito Repubblicano a destra “un abominio”. Jackie Robinson uscì dalla convention in segno di disprezzo insieme a metà dei delegati dello stato di New York. Goldwater, però, aveva l’appoggio di un astro nascente della politica. Un ex attore di Hollywood con un eloquio forbito e un carisma irresistibile, agli inizi di una brillante carriera che lo avrebbe portato ai massimi ranghi delle istituzioni. Era Ronald Reagan, futuro governatore della California e 40° Presidente degli Stati Uniti.

A Time for Choosing

A Time for Choosing”, noto anche come “The Speech” per il suo carattere paradigmatico, segnerà l’affermazione di Ronald Reagan nello scenario nazionale e gli varrà la fama di “The Great Communicator”. Il successo di questo discorso si tradurrà in una raccolta fondi di svariati milioni di dollari a sostegno della campagna elettorale di Goldwater. Pur avendo votato per gran parte della sua vita il Partito Democratico, Reagan decise di schierarsi convintamente con i Repubblicani a partire dagli anni Sessanta. Il paragrafo introduttivo condensa la sua filosofia liberalconservatrice:

Nessuna nazione nella storia è sopravvissuta a un gettito fiscale oneroso, che raggiunge un terzo del suo reddito nazionale. Oggi, 37 centesimi di ogni dollaro guadagnato in questo Paese sono la parte che l’esattore pretende per sé; ciononostante, il nostro governo continua a spendere 17 milioni di dollari al giorno in più di quanto incameri. […] Negli ultimi dodici mesi abbiamo innalzato per tre volte il tetto del nostro debito e, ora, il debito nazionale è di una volta e mezzo più alto di quello di tutte le nazioni del mondo messe assieme.

Un governo limitato

Il secondo tema del discorso è se sia possibile preservare la pace. Questo nucleo dialettico scaturisce da una domanda centrale: “Godiamo o meno delle libertà che hanno inteso garantirci i nostri padri fondatori?”. Reagan argomenta la sua tesi menzionando il principio che ha ispirato la Costituzione americana, ossia un governo limitato dalle leggi e vincolato al rispetto della consenso popolare:

L’idea che il governo sia soggetto al popolo, che non abbia altra fonte di potere che non sia il popolo sovrano, è ancor oggi l’idea più nuova e originale che sia mai apparsa nella lunga storia delle relazioni dell’uomo con l’uomo. Ed è proprio il problema che si pone con questa elezione: se noi crediamo nella nostra capacità di autogovernarci o se invece intendiamo abbandonare la Rivoluzione Americana e confessare che una piccola élite intellettuale di una capitale lontana sia in grado di pianificare le nostre vite al posto nostro meglio di quanto sappiamo fare noi stessi.

A suo avviso, i padri fondatori avrebbero evitato “i pieni poteri di un governo centralizzato” perché sapevano che i governi non controllano le cose. Qui riecheggia il pensiero dei teorici della Scuola austriaca: “Un governo non può controllare l’economia se non controllando le persone. E, quando si dispone a farlo, deve usare la forza e la coercizione per ottenere quanto si propone”.

Reagan afferma con convinzione che “uno Stato non riesce a fare nulla bene o con uguale parsimonia quanto il settore privato dell’economia al suo posto. Nessun governo ha mai deciso volontariamente di auto-ridursi. E così, una volta varati, i programmi governativi non scompaiono mai più”.

Gli errori della pianificazione

L’interventismo ha impoverito l’economia a suon di regolamentazioni. Reagan non ci sta e denuncia la prepotenza con cui i Democratici hanno irregimentato il settore agricolo: “Il popolo delle fattorie ha vissuto un decremento di cinque milioni di unità mentre erano vigenti gli attuali programmi governativi”.

L’amministrazione Johnson aveva esteso le norme che riguardavano un quarto delle fattorie ai restanti tre quarti che lavoravano in un regime di libero mercato. Il suo programma includeva un provvedimento che avrebbe autorizzato il governo federale ad allontanare dalla terra due milioni di agricoltori. Mentre la produttività dei campi calava drammaticamente, il numero degli impiegati presso il Department of Agriculture aumentava a dismisura. E cresceva anche il prezzo del pane.

Segue una denuncia dei piani di edilizia popolare che sembra anticipare i deliri dell’ideologia green: “La libertà continua a essere presa d’assalto in nome dell’Urban Renewal. I diritti di proprietà privata sono così diluiti che si dà corso a quasi tutto quello che uno sparuto gruppo di urbanisti governativi decide in nome dell’interesse pubblico”. Con il suo consueto umorismo, Reagan dichiara che “per trent’anni abbiamo cercato di risolvere il problema della disoccupazione tramite programmi governativi e più i progetti falliscono, più i pianificatori progettano”.

L’atto di nascita del fusionismo

Nella conclusione del discorso, Reagan sfiora le vette della sua abilità oratoria: “Voi e io abbiamo un appuntamento con il destino. O preserveremo per i nostri figli questa che è l’ultima e più grande speranza dell’uomo sulla terra, oppure li condanneremo a compiere l’ultimo passo verso un’oscurità destinata a durare migliaia di anni”.

A Time for Choosing” è un inno alla libertà che si staglia in difesa dell’individuo, proteggendolo dai soprusi del governo e dal rischio della tirannide. Un monumento all’amor patrio e alla responsabilità fiscale che ha gettato le basi del fusionismo, la tendenza sviluppatasi nella National Review di William F. Buckley che propone una sintesi tra gli elementi tradizionalisti, gli ideali conservatori e i principi libertari.

La Heritage Foundation non avrebbe potuto trovare termini migliori per descrivere Barry Goldwater: “The loser who won the future”. Il candidato repubblicano è uscito sconfitto dalle presidenziali del 1964, ma la semina del fusionismo avrebbe dato i suoi frutti nel 1980, quando l’uomo che ebbe il coraggio di sostenerlo vinse trionfalmente la sfida contro Jimmy Carter. Era iniziata una nuova stagione politica.

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