Cultura

Anche in Italia l’attacco al free speech passa per le università

Il prof. Marco Bassani abbandona la Statale, studenti sospesi alla Bocconi: aule universitarie trasformate in “madrase” woke. Il centrodestra convochi i rettori in Parlamento

Luigi Marco Bassani

Del caso del professor Marco Bassani ci siamo già occupati su Atlantico Quotidiano quando fu sanzionato dal cda dell’Università Statale di Milano per aver condiviso sulla sua pagina Facebook, nel novembre 2020, un meme ritenuto “sessista” sulla vicepresidente Usa Kamala Harris: sospensione dall’insegnamento e dallo stipendio per un mese. Tra l’altro, resosi conto che avrebbe potuto offendere la sensibilità di alcuni, Bassani aveva prontamente e spontaneamente cancellato il meme, già poche ore dopo la sua condivisione, nonostante non contenesse volgarità e parolacce. Ma la rimozione, rapida e spontanea, non gli risparmiò prima la gogna pubblica, poi la sanzione disciplinare.

Come lui stesso ricorda, Bassani detiene il titolo di primo professore ad essere stato condannato nel Dopoguerra per aver condiviso, nemmeno manifestato un’opinione, dopo un “processino” sommario. Per una vignetta.

Ora, in una lettera aperta pubblicata ieri su Libero, il prof. Bassani ha annunciato le sue dimissioni dalla Statale di Milano. Non per l’episodio in sé, ma per la solidarietà “risibile” che ha ricevuto: colleghi che hanno cominciato a trattarlo come un appestato, o che gli esprimevano “solidarietà” con preghiera però di non metterli in imbarazzo pubblicamente. Continuerà ad insegnare, ci auguriamo ad altre generazioni di studenti, all’università online Pegaso. Buon lavoro professore.

Aule madrase del Pd

Ma ci auguriamo che non passi inosservato il suo j’accuse:

All’ombra della pubblica istruzione ha prosperato un sistema che più che sviluppare un pensiero critico a tutti i livelli ha reso le aule universitarie una “madrasa” del Pd. Viviamo un incubo prodotto dalla statizzazione dell’intero comparto dell’istruzione: il fatto di aver reso scienza e cultura merci prodotte e distribuite da impiegati pagati (poco) per mezzo della fiscalità generale ha reso gli intellettuali veri e propri funzionari pubblici. Con tanta libertà condizionata quanto i padroni del discorso sono disposti a concedere. L’allocazione delle risorse pubbliche (…) ovviamente crea un enorme conformismo al ribasso. E le recenti censure alle autorevolissime (Prodi, Rubbia, Zichichi) voci critiche sulla tesi del riscaldamento globale di origine antropica ci fanno comprendere che anche nel campo delle “scienze esatte” non si può stare tranquilli. Il tutto accade senza alcun tipo di coercizione palese, grazie semplicemente alla vittoria straripante di una polizia del pensiero, che colpisce pochi, spaventa molti ed è, almeno in apparenza, avversata da tutti.

Parole che dovrebbero indurre una profonda riflessione dei ministri Bernini e Valditara e dell’intera maggioranza di governo. Se non altro, perché il mondo universitario è una delle roccaforti di quella egemonia culturale progressista che almeno a parole la destra sta cercando di scardinare.

Va bene l’autonomia universitaria, ma le università non sono scollegate dalla società, anche per le enormi risorse umane e finanziarie che la società, sia a livello pubblico che privato, vi investe. Dovrebbero essere il luogo del confronto libero e aperto, non del pensiero unico.

Il confronto con gli Usa

Si cominciano a intravedere anche nelle nostre università i prodromi di un fenomeno che già da tempo sta dilagando nei più prestigiosi atenei americani e inglesi, dove l’ideologia woke e la cancel culture hanno ormai preso il sopravvento dando vita ad autentiche aberrazioni.

Nei campus americani la situazione è senz’altro più critica: ammissioni ai corsi su base razziale, continua criminalizzazione degli studenti bianchi per il “privilegio bianco”, indici di parole o frasi proibite, commissioni incaricate di controllare che nei corsi e nei dibattiti non venga usato un linguaggio offensivo delle “minoranze”.

Anticorpi

Solo che negli Stati Uniti sembrano almeno esserci degli anticorpi. Non di rado i tribunali danno ragione ai docenti o agli studenti vittime degli abusi. Fino alla Corte Suprema, che qualche mese fa ha dichiarato illegittimo considerare la razza nei criteri di ammissione, dando torto ad Harvard e all’Università della Carolina del Nord.

Anche la politica ha cominciato ad occuparsene. L’attacco al free speech nei campus universitari è da anni in cima all’agenda dei Repubblicani. Al Congresso e nei singoli Stati sono in cantiere progetti di legge per togliere i finanziamenti agli atenei che non tutelano il free speech.

Già nel 2019 l’allora presidente Donald Trump firmò un ordine esecutivo in cui ordinava a 12 agenzie che erogano fondi federali, in coordinamento con l’Ufficio di gestione e bilancio, di assicurarsi che i college rispettino la libertà d’espressione. Il governatore della Florida Ron DeSantis ha firmato una legge che proibisce di usare fondi pubblici per finanziare i programmi DEI (Diversity, Equity, Inclusion) nei college. Leggi simili sono state introdotte in una ventina di Stati.

I rettori delle più prestigiose università Usa sono stati chiamati a rendere conto davanti al Congresso delle loro politiche di ammissione, delle restrizioni alla libertà d’espressione e alla libertà di insegnamento e, in ultimo, delle manifestazioni di antisemitismo tollerate se non incoraggiate dopo il 7 Ottobre, in questo caso derogando dalle stringenti regole interne in materia di hate speech.

Convocare i rettori

Ecco, casi come quello del prof. Bassani, o quello più recente degli studenti della Bocconi sospesi per aver ironizzato sui bagni gender, offrono al centrodestra l’occasione di svegliarsi e intraprendere simili iniziative, quanto meno convocare in Parlamento i rettori delle principali università italiane per capire cosa sta accadendo, quali sono le politiche interne adottate, quanti e quali i casi di sanzioni, e come eventualmente intervenire a tutela della libertà d’espressione – per esempio condizionando ad essa l’erogazione di fondi pubblici.