Da un recente sondaggio, intitolato “Silence in the Classroom” e realizzato dall’organizzazione no profit con sede a Philadelphia FIRE (Foundation for Individual Rights and Expression), è emerso che nelle università statunitensi un’ampia fetta del corpo accademico vive in un costante clima di paura e autocensura.
Per essere più precisi, il 23 per cento degli accademici sente che il proprio dipartimento è ostile nei confronti delle sue convinzioni politiche, e all’incirca la stessa percentuale teme di poter essere licenziato a causa di incomprensioni e fraintendimenti.
Conservatori nel mirino
La percentuale di coloro che si sentono minacciati per via delle loro opinioni non è uguale per tutti: tra chi si dichiara politicamente conservatore, la percentuale di coloro che nascondono le proprie opinioni politiche per tutelarsi sul lavoro sale al 55 per cento, mentre tra i liberal di sinistra scende al 17 per cento.
Un dato legato anche ad uno sbilanciamento numerico importante: alla Columbia University, ad esempio, il 72 per cento del corpo docenti si dichiara liberal, il 15 per cento moderato e solo il 9 per cento conservatore. Il restante 4 per cento si identifica politicamente come “altro” rispetto alle precedenti categorie.
Un altro aspetto inquietante della vicenda è il confronto con il passato: nel sondaggio, il 35 per cento degli intervistati ha dichiarato di essersi autocensurato nelle proprie pubblicazioni al fine di evitare di finire al centro di polemiche e controversie.
Stando al resoconto del FIRE, questi numeri risultano essere quattro volte maggiori rispetto al numero di accademici che dichiaravano di autocensurarsi in una ricerca simile condotta nel 1954. La scelta dell’anno non è casuale: era il periodo del Maccartismo, quando in molti temevano di perdere il lavoro perché accusati di essere comunisti o spie sovietiche.
Settant’anni dopo, i ruoli si sono invertiti; negli atenei americani, oggi sono i conservatori a temere maggiormente di perdere il lavoro. “Invece di parlare apertamente e proporre idee nuove e audaci, molti docenti americani sembrano tenere la testa bassa e vivere nella paura”, sostiene il FIRE.
Il conflitto in Medio Oriente
La questione più difficile sulla quale avere conversazioni aperte e oneste è risultata essere il conflitto israelo-palestinese, con il 70 per cento dei docenti che ha dichiarato di essere propenso ad autocensurarsi sull’argomento.
E il dato è ancora più alto se, anziché guardare il dato nazionale, si restringeva il campo solo alle prestigiose università della Ivy League: alla Columbia, in particolare, la percentuale di accademici convinti che la questione tra Israele e Palestina fosse difficile da trattare sale all’89 per cento. Mentre all’Università di Harvard erano l’84 per cento, e il 72 per cento afferma che le istituzioni accademiche avrebbero dovuto restare neutrali sull’argomento.
Razza e generi
Dopo il conflitto, le questioni più scottanti da trattare secondo gli intervistati erano la disuguaglianza razziale, i diritti dei transgender e l’affirmative action, quest’ultima intesa come una discriminazione “positiva” volta ad offrire determinate agevolazioni, in particolare nell’istruzione, a coloro che appartengono a categorie ritenute svantaggiate (donne, neri, immigrati, ecc.).
Per condurre il sondaggio, tra il 4 marzo e il 13 maggio sono state intervistate 6.269 persone che lavorano in 55 college e università sparse tra gli Stati Uniti, sia pubbliche che private. Il FIRE ha dichiarato che si è trattato del più grande sondaggio mai condotto sulla libertà di espressione negli atenei Usa, ma non ha specificato se nelle percentuali vi sia un margine di errore.