Cento anni fa, il 21 gennaio 1924, moriva Vladimir Il’ič Ulianov, universalmente conosciuto con il suo pseudonimo rivoluzionario, Lenin, corifeo indiscusso del comunismo mondiale, fondatore del Partito Bolscevico e dell’Unione Sovietica. Lenin non aveva figli. La sua unica creatura fu il partito dell’avanguardia rivoluzionaria, un’innovazione politica fondata su un impegno ideologico fanatico, una intransigente volontà di potere e una disciplina inflessibile.
L’ultimo anno
L’ultimo anno di Lenin non fu altro che un’agonia senza fine. Isolato in una villa trasformata in un sanatorio, una ex residenza aristocratica situata fuori Mosca, divenne prigioniero dei suoi più stretti collaboratori. Le informazioni che gli arrivavano venivano rigorosamente filtrate dall’emissario della leadership bolscevica, il rivoluzionario di origine georgiana Iosif Vissarionovič Džugašvili, noto come Stalin (“Koba”, per gli amici).
Nella sua “Lettera al Congresso”, dettata tra il dicembre 1922 e il gennaio 1923 alla sua segretaria Lydia Fotieva, Lenin chiese la rimozione di Stalin dal ruolo di segretario generale. I membri del Politburo ignorarono il documento e decisero di mantenerlo segreto. Il potere del vecchio leader era ormai svanito. A lui, ovviamente, furono dedicati peana e poi trenodie, venne celebrato in poesie e canzoni, il suo nome fu cantato ogni dove, ma aveva cessato di essere il vero decisore riguardo alle scelte strategiche e agli incarichi politici.
Dal partito al despota
Negli ultimi anni, Lenin criticò l’elefantiasi burocratica del sistema sovietico, ma era troppo tardi. Arrivati a quel punto, tutte le istituzioni chiave del sistema totalitario erano state dispiegate per centralizzare e custodire il potere assoluto dei bolscevichi. L’apparato poteva fare a meno del suo fondatore. Negli anni successivi, i suoi epigoni, e Stalin più di chiunque altro, fecero tutto il possibile per esacerbare la logica oligarchica e genocida del leninismo.
Per Vladimir Lenin, la “dittatura del proletariato”, concetto che difendeva con fanatico fervore, rappresentava l’unico mezzo per salvare la rivoluzione e, dunque, l’umanità intera. Ma, in realtà, come avevano previsto i suoi avversari menscevichi e come ha dimostrato, con grande lucidità, Raymond Aron, l’essenza del bolscevismo era il “sostituzionismo”: il partito sostituisce la classe, l’oligarchia “rivoluzionaria” sostituisce il partito, il despota, infine, sostituisce il dominio della casta con quello della propria volontà.
Il terrorismo rivoluzionario
Il mito del partito infallibile, unico detentore della verità, trovava il suo contraltare nel mito del genio onnisciente, del leader visionario ispirato da una dottrina universalmente purificatrice e redentrice. Nella cornice di questa escatologia rivoluzionaria, la violenza aveva funzioni redentive, catartiche e miracolose.
Coloro che si rifiutavano di aderire alla “verità della Storia” incarnata dal partito diventavano “nemici del popolo” e, pertanto, meritavano lo sterminio come miserabili “parassiti” o “corpi nocivi”. Il linguaggio di Lenin ha una sua perfetta corrispondenza con quello di Hitler, anch’esso ricco, come ha scritto a tal proposito Luciano Pellicani, di “espressioni prese a prestito dalla parassitologia”.
Lenin aveva trovato la legittimazione della violenza maieutica negli scritti di Marx, in particolare nella tesi, espressa dal filosofo di Treviri in un articolo del 1848 pubblicato sulla Nuova Gazzetta Renana, secondo la quale il solo modo per “abbreviare” le “doglie sanguinose della nuova società” fosse il ricorso al “terrorismo rivoluzionario”.
Arte e cultura
Nemmeno la cultura si salvò dall’infezione leninista. La filosofia, l’arte, la letteratura, per lui, dovevano servire la rivoluzione, pertanto andavano “politicamente corrette”. Non ci poteva essere “art pour l’art”. Lenin formulò il principio della “parzialità” nell’arte e stigmatizzò con immenso disprezzo gli “intellettuali dubbiosi”. Lenin, come avrebbe scritto il grande romanziere Vasilij Grossman, “non cercava la verità, cercava la vittoria”.
Quanti, oggi, cercano di proporre l’immagine benevola di un “bolscevismo” originario, diverso dal totalitarismo staliniano, ignorano che il leninismo è stato fin dall’inizio un’ideologia criminale, basata sul culto della violenza, sulla mistica del partito e del capo supremo. Lenin è stato il creatore di tutte le istituzioni che hanno permesso gli orrori infernali dello stalinismo: l’ideocrazia, la polizia segreta, la propaganda martellante, i campi di lavoro forzato, il completo annullamento della giustizia e la simulazione di una pseudo-legalità volta a giustificare qualsiasi abuso.
L’anima del comunismo
Dopo la sua morte, divenne oggetto di un’adorazione para-religiosa, che raggiunse l’acme con la mummificazione del suo corpo. Le superstizioni medievali trionfarono all’interno di un movimento politico e ideologico orgogliosamente dedito a principi filosofici materialisti. Non è necessario sostenere l’approccio di Isaac Deutscher al bolscevismo per concordare con lui sul fatto che, il leninismo-stalinismo, fu una fusione di marxismo e magia primitiva.
L’internazionalismo bolscevico portò alla fondazione della Terza Internazionale (Comintern) nel marzo 1919. Le condizioni di ammissione all’organizzazione rivoluzionaria mondiale con sede a Mosca furono elaborate da Lenin, e riflettevano il centralismo autoritario caratteristico della mentalità russa e delle istituzioni bolsceviche. I partiti comunisti dell’Europa occidentale divennero la longa manus del Cremlino.
Il leninismo, nelle sue varie incarnazioni, è crollato in Europa, ma è vivo in Cina, a Cuba e in pochi altri luoghi. Il maoismo è la versione cinese del leninismo, e il suo riconoscimento dei meccanismi di mercato non sminuisce le caratteristiche totalitarie del sistema: dittatura monopartitica, propaganda onnipresente, censura, polizia segreta, culto della personalità e persecuzione dei dissidenti.
La pandemia da Covid-19 e gli atteggiamenti di Pechino sulla guerra in Ucraina hanno, tragicamente, riconfermato ciò che una volta aveva acutamente osservato il filosofo polacco Leszek Kołakowski: la menzogna è l’anima eterna del comunismo.