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Cento anni dopo, la lezione dell’Appello ai liberi e forti di don Luigi Sturzo

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Cento anni fa, il 18 gennaio 1919, don Luigi Sturzo pubblicava e diffondeva il suo celebre “Appello ai liberi e forti”. Rileggerlo, a distanza di così tanto tempo, è impressionante, perché si resta ammutoliti di fronte alla modernità e all’attualità del testo e perché da esso emerge immediatamente la distanza che separa Sturzo dall’ideal-tipo del “cattolico impegnato in politica” a cui siamo abituati. Don Luigi Sturzo è stato uno dei pochi, autentici, maestri liberali della storia italiana. E la lettura dell’Appello lo conferma: Sturzo era in politica per conseguire l’affermazione piena e effettiva delle libertà politiche, civili ed economiche ed era ben consapevole che senza le ultime, le prime due sarebbero state impossibili o vane. Si legge, infatti, nell’Appello:

“Ad uno Stato accentratore tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica e individuale, vogliamo sul terreno costituzionale sostituire uno Stato veramente popolare, che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali – la famiglia, le classi, i Comuni – che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private”.

È il 1919, il governo è ancora in mano a una classe politica che si definisce “liberale”, ma Sturzo ha già chiaro il pericolo che il Paese sta correndo: sulla falsariga dello Stato tedesco di Bismarck, infatti, si sta costruendo anche in Italia uno “Stato accentratore”, pronto ad avvinghiare la società libera in una stretta mortale. All’opposto, il prete calatino vuole che lo Stato “riconosca i limiti della sua attività (…) e rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private”, così disegnando i confini di uno Stato “veramente popolare” (ma lo si potrebbe definire, modernamente, “leggero”), che faccia poche cose e ne lasci fare molte altre agli “organismi naturali” e ai privati.

È indispensabile rintracciare le radici dell’esperienza politica sturziana, così magistralmente sintetizzata nel testo dell’Appello, al fine di comprenderne pienamente il significato. Sturzo comincia a fare politica schierandosi tra le fila dei cosiddetti “cattolici intransigenti”, quel gruppo di cattolici che – spinto dal rifiuto di riconoscere la legittimità dello Stato italiano unitario – elaborò una piattaforma di azione politica fieramente avversa allo statalismo e al corporativismo (di cui la laicizzazione “forzata” era uno degli aspetti). In uno dei suoi articoli più noti e importanti
(“Lungo monologo sullo statalismo”, in La Via, 1 dicembre 1952), Sturzo racconta:

“Quando Crispi, con la legge del 17 luglio 1890, concentrò le opere pie di beneficienza e le pose sotto la diretta sorveglianza dello stato, i cattolici italiani si levarono in piedi come un sol uomo, e chi scrive, diciannovenne, fece la sua prima battaglia antistatalista. (…) [Oggi] perfino la scuola materna è insidiata, e si vuole farla passare sotto l’ingerenza diretta dello stato. (…) Lo statalismo economico è venuto per ultimo, ma non è meno pericoloso”.

Sturzo aveva conosciuto l’impegno politico battendosi contro lo “statalismo”, che egli vedeva come “l’eccesso e la degenerazione dell’attività statale, da non confondersi con i compiti, i doveri e i diritti dello stato”, ricordando che “non sono un binomio ‘statalismo e libertà’, sono un’antitesi; dove arriva lo statalismo cessa la libertà”. Per questo, già nell’Appello, il prete calatino chiedeva “libertà comunale e locale secondo le gloriose tradizioni italiche” e aveva scelto come simbolo del suo PPI lo “scudo crociato” dei liberi Comuni che avevano sconfitto il potente Barbarossa: egli, in linea con il suo spirito liberale, era quindi anche un convinto “federalista”. Non lo definiamo “regionalista” o “municipalista” – come pure era solito auto-appellarsi – solo per non fargli un torto: egli, infatti, inorridirebbe nel vedere quale fabbrica di consenso a suon di soldi dei contribuenti sono diventati le regioni e i comuni italiani. Nel suo insistere convinto e rigoroso sull’autonomia dei centri locali rispetto allo Stato centrale, Sturzo mostra di aver fatto propria la straordinaria lezione di Antonio Rosmini: nel rovesciamento della piramide del potere, con il comune come ente privilegiato e lo Stato centrale solo come ente sussidiario, è individuata la soluzione migliore per preservare l’autonomia della società e dell’individuo, al fine di tenere questi ultimi al riparo da esperimenti di “ingegneria sociale”.

Purtroppo, con la morte di don Sturzo, preceduta di poco da quella di Alcide De Gasperi, tramontò quella generazione di cattolici, liberi e forti, che aveva visto nell’Appello non solo il proprio punto di riferimento ideale e valoriale, ma anche un programma di riforme necessarie per limitare il potere pubblico e salvaguardare la libertà della società. Quella generazione che – come era solito fare, con la sua granitica coerenza intellettuale, proprio Sturzo – scriveva “stato” con la minuscola, riservando la maiuscola solo a “Individuo”. Nel centenario della pubblicazione dell’”Appello ai liberi e forti”, dunque, vale la pena ricordare il valore eterno della lezione sturziana: la protezione dello spazio che si colloca tra il singolo e l’autorità pubblica, contro “l’idea di togliere alla vita economica, anzi a tutta la vita, il senso del rischio e nel voler trasferire tutti i rischi, attraverso lo stato, sulla intiera comunità” (“Stato democratico e statalismo”, in Il Giornale d’Italia, 20 novembre 1952).