Diffidenza verso la Russia e corsa alla Nato, le ragioni di baltici e centro-orientali

“La mente prigioniera”, un libro per comprendere e respingere tanto l’autoritarismo proveniente da Mosca, quanto il totalitarismo “morbido” del progressismo occidentale

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putin russia

Nel 1953, il poeta polacco e futuro premio Nobel per la letteratura Czesław Miłosz − allora pressoché sconosciuto in Occidente − diede alle stampe quello che sarebbe diventato uno dei suoi libri più famosi, “La mente prigioniera”, in cui esplorava le ragioni, intellettuali ed emotive, che spinsero gli intellettuali della Polonia del Dopoguerra a uniformarsi al “realismo socialista” e all’ortodossia marxista. Apparso nel pieno della Guerra Fredda, il libro ebbe ampia risonanza e suscitò un acceso dibattito, divenendo un testo fondamentale per tutti gli studiosi della vita intellettuale e politica del XX secolo (e non solo).

Se i capitoli in cui si delineano i profili di quattro scrittori di successo conformatisi al regime comunista, ritratti minuziosamente cesellati dei loro vaneggiamenti intellettuali, che finiscono per diventare quattro idealtipi di trahison des clercs − il “moralista” Alpha, il nichilista Beta, lo “schiavo della storia” Gamma e il “trovatore” Delta − meno conosciuto e commentato è l’ultimo capitolo, intitolato I popoli baltici, indispensabile per comprendere le attuali tensioni tra Europa e Russia.

Il destino dei Baltici

Miłosz, nato nella Lituania allora facente parte dell’Impero russo e formatosi a Vilnius, al tempo sotto giurisdizione della Polonia, al termine de “La mente prigioniera” decise di tracciare non il destino degli intellettuali, bensì quello dei lettoni, dei lituani e degli estoni, calpestati “dall’elefante della Storia”.

L’Europa baltica subisce la medesima tragedia dell’Europa centrale: sequestrata − kidnappé avrebbe scritto Milan Kundera − dall’ingombrante vicino russo e confinata, financo nell’immaginario collettivo, in un nemboso mondo “slavo” a cui non è mai appartenuta. Dopotutto, già nell’Ottocento, il ceco Karel Havlíček notava che “ai russi piace definire slavo tutto ciò che è russo, in modo da poter definire russo tutto ciò che è slavo”.

Il pachiderma russo-sovietico, che nel 1940 irruppe alle frontiere di Estonia, Lettonia e Lituania, per poi consolidare definitivamente il suo dominio quattro anni più tardi, è quanto di più lontano vi sia dallo “spirito” baltico, scrive Miłosz:

L’invasione del Messico da parte degli spagnoli deve essere stata per gli aztechi un’esperienza spaventosa. I costumi dei conquistatori erano strani, i loro riti religiosi incomprensibili, il loro pensiero impenetrabile. Per estoni, lettoni e lituani l’invasione dell’Armata rossa non fu sicuramente uno shock minore.

Questa terrorizzante estraneità del mondo russo la si ritrova anche in un altro poeta polacco, Aleksandr Wat, che nelle sue memorie autobiografiche, rilasciate in forma orale proprio a Miłosz e da lui trascritte, così ricorda il suo primo incontro coi russi dopo l’invasione della Polonia: “quei volti tartarici, quelle uniformi cenciose, quegli elmi con le punte da ferrivecchi mongoli: l’Asia, insomma, l’Asia più asiatica che si può, Asia a bizzeffe”.

La russificazione

Il piccolo mondo dei Paesi baltici, il mondo “dei quadri di Brueghel: mani strette su grandi boccali di vetro, ilari facce rosse, stolida bonarietà. Virtù contadine: laboriosità, capacità di amministrare, previdenza”, venne profondamente alterato dai russo-sovietici, non solo dal punto di vista socioeconomico attraverso la collettivizzazione delle terre, ma anche sotto il profilo etnico: “In breve tempo le prigioni si riempirono, e iniziarono le deportazioni in massa di determinate categorie di abitanti in campi di lavoro, miniere e kolchoz situati in sperdute lande dell’Unione Sovietica”.

Ai rubizzi contadini baltici subentrarono cenciosi braccianti russi, veri e propri coloni, provenienti “dalle profondità del continente euro-asiatico”. Tale spostamento di popolazioni rende ragione della presenza di nutrite minoranze russofone in quasi tutte le nazioni limitrofe alla Russia.

I russo-sovietici avviarono anche un processo di “russificazione” delle culture nazionali. Siccome la nazione russa “ha fatto la rivoluzione e ha creato i modelli della cultura socialista attingendo al proprio patrimonio nazionale”, ogni rivendicazione di una specificità culturale o linguistica venne considerata espressione di odio nazionalista e antirusso.

All’interno dell’impero sovietico, ricorda Miłosz, per non incorrere in accuse di “nazionalismo”, era obbligatorio celebrare la letteratura russa, la scienza russa, l’arte russa e, persino, canticchiare canzoni russe. Uno sradicamento a cui non andarono incontro solo i popoli baltici, ma anche gli ucraini, prosegue l’autore: “I critici e i poeti ucraini che volevano mantenere in vita una letteratura autonoma non sono più vivi, come non lo sono più quegli attori che fieri del loro teatro nazionale si erano spinti troppo in là nel loro tentativo di competere col teatro russo”.

Le ragioni della diffidenza

Il libro di Miłosz spiega la profonda diffidenza che i popoli dell’Europa centro-orientale manifestano nei confronti dell’aggressivo vicino, così come la loro corsa per mettersi al riparo sotto alla rosa dei venti della Nato. Un timore giustificato da recenti traumi storici e corroborato dalle politiche neo-imperiali di Vladimir Putin.

Allo stesso tempo, getta una luce nuova e inquietante sull’immigrazione di massa verso l’Europa, uno “spostamento di popolazione” spontaneo, ma incoraggiato dalle istituzioni nazionali e sovranazionali del Vecchio Continente. Un fenomeno che viene imposto agli europei attraverso un’ideologia “antinazionale” non dissimile da quella sovietica, dove le accuse di “razzismo” e “islamofobia” svolgono la medesima funzione, censoria e patibolare, di quelle di “antisiovietismo” e “odio antirusso”.

“La mente prigioniera” si rivela così un testo eccellente per comprendere e respingere tanto l’autoritarismo proveniente da Mosca, quanto il totalitarismo “morbido” del progressismo occidentale.

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