Il rischio è di inserire di nuovo elementi estranei e dogmatici nel rapporto concreto ed “esclusivo” tra governanti e governati, portando a legittimare, spesso in nome dei più alti ed astratti ideali legati al bene pubblico, soggetti che non sono di fatto responsabili nei confronti dei destinatari delle loro decisioni perché “elevati” in modo acritico al di sopra di ogni valutazione empirica
Quali che siano i motivi che hanno portato alla caduta del governo Draghi e alle elezioni anticipate, fatto sta che, come si sarebbe detto qualche anno fa, nella politica italiana la parola è tornata al popolo sovrano.
Gli anti-sovranisti
Ma qui è l’ostacolo: oggi molti, anche tra i massimi protagonisti della scena pubblica, evitano di usare il termine “sovranità” (dimenticando che esso rappresenta il contenuto fondamentale dell’art. 1 della Costituzione) quasi che fosse una parolaccia e usano il termine derivato “sovranismo” per attaccare e bollare come “pericolosi” e “non legittimati a governare” quelli che non la pensano come loro.
L’affermazione che più ricorre è che la sovranità, intesa soprattutto come sovranità “nazionale”, riferita cioè ad una comunità statale particolare, è una sorta di residuo del passato, quasi un fossile ingombrante della storia ormai inadatto alla nuova epoca che ha per protagonisti i “cittadini del mondo”.
Una nuova epoca che è ormai iniziata e sta giungendo (magari con qualche battuta d’arresto) ad un compimento inevitabile, attraverso uno sviluppo che i singoli non possono impedire, ma, come diceva Karl Marx (1818-1883) riguardo alla evoluzione verso la società socialista (anch’essa immaginata senza stati), hanno il compito e il dovere di accelerare.
I sovranisti
Viceversa, molti di coloro che invece difendono in maniera quasi altrettanto accesa il sovranismo, identificano la sovranità con determinate istituzioni (lo stato accentrato, la supremazia di uno o l’altro dei poteri statali, ad esempio legislativo o esecutivo, ecc.), e in un certo senso, così come i loro oppositori, finiscono per dogmatizzare un concetto che invece è per sua natura empirico, variabile e legato al concreto svolgersi dei rapporti politici.
Un concetto che non solo si presta ad essere adattato e calibrato alle varie situazioni, ma consente pure (naturalmente se c’è la disponibilità a farlo) di valutare se esso sia oggi veramente da eliminare dalla realtà politica, e di proporre prima di eliminarlo con quale altra realtà lo si andrebbe a sostituire.
Il concetto di sovranità
Così nella polemica spesso dai toni manichei tra antisovranisti e sovranisti si perdono di vista il concetto e il valore fondamentale della sovranità, un valore costruito nel corso dei secoli che formano l’età moderna, che nasce insieme a quello di stato nel 1500 e che tanto ha contribuito a creare forse la migliore (anche se non certo perfetta, ma ciò è ovvio) struttura politica che la storia abbia realizzato, l’unica che garantisce in larga misura la libertà dei singoli e consente loro di elaborare in maniera autonoma dei progetti di vita potenzialmente realizzabili.
La sovranità non è un concetto vuoto: esso esprime infatti un modo particolare di esercitare il potere pubblico, cioè il potere riferito ad una generalità di persone consociate tra loro a fini politici e giuridici.
Una modalità tipica dello stato moderno, che si basa su una relazione bilaterale diretta tra governanti e governati, in forza della quale i primi agiscono per conto dei secondi e sono responsabili della loro azione, secondo l’etica della “responsabilità” tipica della politica descritta da Max Weber (1864-1920).
Questo rapporto bilaterale si vede con chiarezza, ovviamente, soprattutto nelle democrazie liberali, caratterizzate dalla elezione popolare dei titolari dei massimi incarichi istituzionali e dalla suddivisione e limitazione dei poteri dello stato.
Ma esso non mancava neppure nelle forme per così dire più “unilaterali” della sovranità, quale quella propria delle monarchie assolute, dove il sovrano non era un autocrate che con i suoi ordini poteva creare il giusto e l’ingiusto e decidere a piacimento l’interesse pubblico. Il suo potere incontrava dei limiti derivanti dalla necessità del consenso dei sudditi (ad esempio in tema di tassazione tramite le delibere di vari ceti) e dal divieto di ingerirsi in ambiti non legati al bene pubblico, ad esempio in tema di gestione della proprietà privata.
Insomma, il concetto di sovranità esprime da sempre un rapporto personale tra governanti e governati che non solo è bilaterale (in maniera più o meno pienamente realizzata) ma è anche per così dire “esclusivo” rispetto ad altri elementi, nel senso che l’esercizio del potere da parte dei primi fa riferimento essenzialmente alla situazione concreta dei secondi, e parimenti la valutazione di questi ultimi sull’operato di quelli (quali che siano gli effetti di tale valutazione, dalla semplice critica, al giudizio in sede elettorale) ha per oggetto fondamentalmente le modalità e gli effetti concreti della loro gestione del potere.
Il potere in epoca pre-moderna
Se andiamo un poco indietro, nelle epoche premoderne, troveremo invece dei modi di esercitare il potere politico molto diversi dalla sovranità, cosa che volendo (al di là delle analogie formali) si potrebbe peraltro riscontrare ancora oggi in molti stati non occidentali.
Limitandoci agli “antenati” culturali della civiltà euro-nordamericana, troviamo che prima del 1500 il rapporto tra governanti e governati non era di tipo “esclusivo”, nel senso che tra i primi e i secondi si inseriva sempre (“strutturalmente”, verrebbe da dire) qualche entità diversa che da un lato legittimava il potere di chi governava e dall’altro era il termine di riferimento della sua responsabilità, che non veniva quindi messa in relazione diretta con le istanze e le esigenze dei cittadini (o dei sudditi), ma con questa entità.
Vediamo di spiegarci: un caso tipico di potere pubblico diverso dalla sovranità era quello teocratico, esercitato dall’“Unto del Signore” come accadeva ad esempio nell’Israele biblico. Mentre un sovrano assoluto moderno può diventare tiranno se opprime il popolo, il re teocratico rispondeva solo alla divinità del suo operato, anche quando lo stesso avesse finito per danneggiare i governati, o quantomeno per non corrispondere ai loro interessi.
In modo molto diverso, ma simile dal nostro punto di vista, anche le magistrature repubblicane greche e romane non erano responsabili direttamente riguardo al loro venire incontro o meno agli interessi popolari, ma lo erano (come oggi lo è un amministratore di condominio) con riferimento della gestione di una cosa, di un bene comune a tutti che i greci identificavano con la “polis” (la casa comune della comunità sociale) e che i romani chiamarono in maniera più appropriata “res publica”.
Così metro di giudizio per l’azione dei magistrati era l’avere recato danno o vantaggio alla “cosa pubblica”, e il loro merito consisteva nell’aver ricavato dalla stessa, cioè dalla gestione del potere, utilità materiali e morali, da distribuire ai cittadini (cosa che nella sua degenerazione divenne l’elargizione di “panem et circensens”).
Con l’affermarsi della tradizione barbarica, nel Medioevo entrò in scena il concetto di potere come rapporto personale tra governanti e governati; all’epoca però, esso era talmente suddiviso tra signori e signorotti, tra comunità cittadine e consorterie varie che i vari soggetti, al tempo stesso governati dai superiori e governanti verso gli inferiori, non potevano porre in essere un rapporto esclusivo.
Un concetto liberale
Solo con la modernità nasce il concetto di sovranità, un concetto profondamente liberale perché, come si è cercato di descrivere mette per così dire al centro della gestione del potere esclusivamente il rapporto diretto governanti-governati. E anche quando si presta (come accadde nelle monarchie assolute) all’instaurazione di un potere repressivo, contiene già in sé i germi della sua evoluzione in senso liberaldemocratico.
Se i primi teorici della sovranità la intesero come potere assoluto (ma pur sempre riferito agli interessi dei sudditi), si pensi al giurista francese Jean Bodin (1529-1596) o al filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679), già nella prima età moderna si affermarono le diverse concezioni del potere sovrano limitato e suddiviso tra le diverse strutture statali contrapposte tra loro, portate avanti in Gran Bretagna dal giurista Edward Coke (1552-1634) e dal filosofo John Locke (1632-1704) e sostenute in Francia da Charles de Montesquieu (1689-1755), giurista e filosofo ad un tempo.
Rapporto bilaterale
Con lo sviluppo democratico degli ultimi due secoli, la sovranità è diventata sempre più un rapporto bilaterale anche nella sua titolarità, dato che i governati hanno assunto il compito di eleggere (direttamente o indirettamente) chi li governa. Certo i gradi di democrazia e di liberalismo del potere pubblico occidentale sono diversi.
Se la tentazione di una sovranità popolare quasi onnipotente quale quella teorizzata da Jean Jacques Rousseau (1712-1778) è stata forte soprattutto nei Paesi europei continentali, è altrettanto vero che all’estremo opposto, nella tradizione anglosassone, rafforzata negli Stati Uniti dallo spirito individualista proprio delle concezioni religiose puritane, si è giunti addirittura a dire, come fece il presidente americano Abraham Lincoln (1809-1865) che la vera titolare della sovranità è la Costituzione.
A riprova di quanto detto si pensi al fatto che tutti i regimi totalitari hanno rinnegato questo rapporto empirico e responsabile, legittimando i loro dittatori in base a realtà esterne assolutizzate (la valorizzazione della stirpe comunitaria, l’esaltazione della giustizia di classe ecc.).
I rischi nel rottamare la sovranità
Gettare via la sovranità, facendone una caricatura con l’uso del termine “sovranismo”, può portare ad esiti imprevedibili: il rischio è di inserire di nuovo elementi estranei e dogmatici nel rapporto concreto ed “esclusivo” tra governanti e governati, portando a legittimare, spesso in nome dei più alti ed astratti ideali legati al bene pubblico, soggetti che non sono di fatto responsabili nei confronti dei destinatari delle loro decisioni perché “elevati” in modo acritico al di sopra di ogni valutazione empirica.
Le affermazioni sull’inevitabile fine della sovranità, portate avanti negli anni “ruggenti” della globalizzazione, oggi si sono di molto attenuate e di molto si è intaccata l’aura di “infallibilità” dei soggetti “non sovrani” (diversi cioè dai governanti classici), i quali avrebbero dovuto guidare i comportamenti dei cittadini, quali ad esempio gli esperti tecnici (come molti di quelli inseriti nelle strutture dell’Unione europea), o i protagonisti dei mercati finanziari, o anche gli attivisti delle organizzazioni ambientaliste e/o umanitarie.
E c’è addirittura il rischio che si sviluppino reazioni eccessive di segno opposto che esaltino in modo eccessivo i poteri pubblici tradizionali perdendo in parte di vista la loro responsabilità e i loro limiti.
L’occasione delle prossime elezioni
Le prossime elezioni potrebbero invece essere un’occasione per recuperare il valore liberale e democratico del rapporto tra elettori ed eletti, magari concentrando il dibattito sul modo in cui verrà gestita la sovranità, senza perdersi nella vuota ed inutile polemica sovranismo-antisovranismo.
La contrapposizioni fatte di slogan servono a poco: la tradizione di governo che si è sviluppata intorno al concetto di sovranità (e se lo si vuole mettere da parte si ha almeno l’onere di proporre qualcosa di meglio da sottoporre al giudizio degli elettori), e in particolare di sovranità liberal-democratica, richiede un confronto sui temi concreti, riguardo ai quali al potere dei governanti corrisponda la loro responsabilità verso i governati, e nella situazione italiana, provata da anni di gestione troppo dogmatica delle potestà pubbliche, se c’è bisogno di una cosa è proprio di questo.