Sui libri di storia, un giorno, si leggerà che il dicastero di via Collegio Romano, il Ministero della cultura italiano, venne guidato, dal 22 ottobre 2022 al 6 settembre 2024, da un giornalista napoletano di nome Gennaro Sangiuliano. Non molto di più di questa breve nota resterà agli atti, visto che è antica tradizione nascondere la polvere sotto i tappeti.
Noi contemporanei, però, siamo stati travolti da uno scandalo che si trova all’incrocio tra una pochade estiva ed una farsesca spy story. I fatti, in sé, sono di una modestia assoluta e non meritano neppure di essere riassunti. Però, sia per opportunismo politico, sia per volgari pruderie, ecco che fiumi di inchiostro sono stati versati a tutto discredito di questo mite, e forse un po’ goffo, ministro.
Il passo indietro
Uno su tutti Luca Sommi, che, con la sua severa posa da censore, incolpa Sangiuliano di chissà quali responsabilità politiche (che ovviamente non enuncia), sostenendo che non ci si dimette per delle semplici intemperanze maschili – come non si dimise Bill Clinton nell’affaire Lewinski – se non vi è nulla da nascondere. Operazione volgare che non vuole ricordare che “il passo indietro” sia, alle volte, un momento necessario per salvare qualcosa di molto più importante della carica di ministro: una famiglia. Che poi il mea culpa dell’allora ministro sia stato “forse” esagerato ed inopportuno è probabile, ma perché non cedere il passo alla pietas, invece di abbandonarsi al livore?
Molti nemici
In parziale controtendenza vi sono testate giornalistiche di area politica prossima al governo che hanno insinuato che il “caso” possa aver avuto una regia ben precisa e che la “signora”, che non merita neppure di essere ricordata con il proprio nome, “sia stata teleguidata da una ‘manina’ esterna”.
Sarà vero? Fino a che gli organismi competenti non troveranno (o non vorranno trovare) prove a sostegno di questa teoria, è obbligo ritenere che certe “coincidenze”, siano tali. Quello che è vero, però, è che di nemici l’ex ministro Sangiuliano ne aveva tanti; dentro e fuori il palazzo del Collegio Romano, ma anche e soprattutto presso le direzioni cinema e spettacolo a Santa Croce in Gerusalemme.
Di certo il Nostro può aver commesso errori e leggerezze. Vi è chi lo accusa di fare spoil system all’interno delle commissioni ministeriali, esattamente come tutti i predecessori prima di lui. Forse ha scelto persone “amiche” per incarichi di prestigio, nonostante una carenza di titoli, esattamente come tutti i predecessori prima di lui.
Un esempio: il ministro Dario Franceschini nominò un laureato di filosofia, specializzato su Max Weber (chapeau!), e non uno storico dell’arte, a dirigere la Reggia di Caserta nel 2015. Il prescelto, proveniente, anche lui, dall’Emilia Romagna, copriva questa mancanza di titoli definendosi “dirigente di idee” (probabilmente una nuova professione che si trova all’intersezione del morettiano “vedo gente, faccio cose”, con il “tarapia tapioco” di “Amici miei”).
Cose che non devono destare scandalo, ma fanno parte della logica (se di logica si può parlare) spartitoria degli incarichi apicali, sempre che si sia posizionati dalla parte “giusta” e non prossimi alla destra. La vera colpa di Sangiuliano è stata quello di voler interrompere il perverso gioco dei finanziamenti ministeriali, concessi per “tappare la bocca” alle rappresentanze di categoria, soprattutto nell’ambito dello spettacolo (riprodotto o dal vivo che sia).
Di questo il Nostro ne aveva piena contezza, infatti nella lettera di dimissioni scrisse: “Sono consapevole, inoltre, di aver toccato un nervo sensibile e di essermi attirato inimicizie avendo scelto di rivedere il sistema dei contributi al cinema”. Sarebbe stato facile fare il ministro osannato da tutti: tagliare qualche nastro, dire belle parole di circostanza, come il Nerone di Petrolini, e lasciare che tutto continuasse come sempre.
L’ignobile mangiatoia
Invece no! Questo dannato napoletano commise un due errori nella stessa azione: voler capire come venivano spesi i soldi e, al contempo, mettere il “pubblico” (quello che paga il biglietto, oltre che le tasse) al centro dell’azione dell’autorità di governo. Da qui la riforma, appena varata, sul tax credit e sui contributi selettivi al cinema e, al contempo, il tentativo di apportare modifiche al sistema dello spettacolo dal vivo, mediante decreti applicativi della pessima e sciagurata legge delega, voluta da Franceschini, ed approvata l’”ultimo” giorno della precedente legislatura (guarda caso), solo per dire che Lui l’aveva voluta e pensata.
I contributi selettivi sono, da sempre, una ignobile mangiatoia in grado di mettere sul piatto una torta da 841 milioni di euro fino al 2022. Soldi sborsati senza alcuna valutazione sulla qualità del prodotto. Per fare alcuni esempi: molte produzioni italiane che hanno ricevuto generosi contributi pubblici hanno generato incassi quasi inesistenti. Qualche esempio? “Sherlock Santa” e “Ladri di Natale”, due film di Francesco Cinquemani, costati complessivamente 15 milioni di euro. Per le due produzioni, il ministero ha concesso un contributo statale di 4 milioni, ma l’incasso dei due film è stato di appena 13mila euro.
Un discorso simile vale per “Prima di andare via” di Massimo Cappelli: 700mila euro di contributo pubblico e 29 biglietti venduti al botteghino, riportava un’inchiesta de La Verità. Mosse scandalo che il Ministero, presieduto da Franceschini, avesse finanziato due film (“Magari” uscito nel 2019 e “Te l’avevo detto” uscito nel 2023) di Ginevra Elkann, non propriamente proveniente una “signora nessuno”, con un contributo complessivo di per 2,8 milioni di euro, ma i suoi due film hanno portato nelle casse appena 130.000 euro. Che non si dica che un ministro “di sinistra” neghi un obolo alla famiglia Agnelli. Si potrebbe affermare che decidono le commissioni; ma perché non ricordare che proprio nell’ottobre 2022 venne scartata dalla commissione nominata dal citato ferrarese il film “C’è ancora un domani” della Cortellesi, campione di incassi.
La storia delle “marchette” ai potenti è antica. Basterebbe ricordare che nel 1991 lo Stato sostenne la prima (ed ultima) fatica da regista di Marina Ripa di Meana: “Le cattive ragazze”, vabbé! Tra le novità che volle Sangiuliano vi fu anche l’obbligo per le società di produzione cinematografiche di coprire il 50 per cento delle spese con investimenti privati. E poi la grande novità riguarda il rapporto tra contributo statale e distribuzione nelle sale. Chi accede al fondo statale deve possedere un contratto con le società di produzione in modo da garantire una qualità del prodotto e un pubblico numeroso.
Scandaloso? Oltre a ciò – ai fini sia del tax credit, sia del contributo – si era deciso di mettere un tetto ai compensi dei registi e degli attori dei film che incassano i contributi statali, equiparandolo a quello dei manager pubblici fissato a 240mila euro. Visto che il cuore sta a sinistra, ma il portafoglio a destra, ecco la levata di scudi delle anime belle e disinteressate come Muccino e Moretti che, intervenendo alla Festa del cinema di Venezia, disse: “Ai colleghi produttori e registi vorrei dire che dovremmo essere più reattivi nei confronti della nuova pessima legge sul cinema”.
Idealità e Mammona! Fa sorridere che di fronte a questi “scossoni” al sistema ecco che le Regioni, non più tardi del 6 settembre scorso, di fronte alla nuova bozza di decreto per i contributi selettivi abbiano solo lamentato la mancanza di “leale collaborazione” dello Stato, visto che il testo non teneva conto dei contributi che anche le autonomie erogano. Parimenti l’amministrazione centrale rimproverava la disattenzione formale delle Regioni verso le norme “romane”. Formalismi privi di sostanza. L’importante è non modificare nulla!
Non diverso nello spettacolo dal vivo, ambito – de facto – controllato dalle associazioni di categoria (AGIS – Agenzia generale spettacolo, ANFOLS – Associazione nazionale fondazioni lirico sinfoniche; PLATEA – Fondazione per l’arte teatrale), che impongono le loro scelte ai ministri, compreso Sangiuliano, anche per la composizione della macchina burocratica.
Si prendano ad esempio le 12 fondazioni lirico sinfoniche “ordinarie”. Nel 2022 (ultimo anno di pieno e legittimo regime franceschiniano) a fronte di spese di produzioni pari a quasi 400 milioni, esse hanno portato a casa incassi per meno 70 milioni (17,77 per cento delle spese). I contributi “pubblici” ammontarono a 250 milioni (65,04 per cento). È evidente che il sistema non funziona, anche perché si basa su algoritmi incomprensibili, anche agli uffici ministeriali, che chiudono gli occhi sul fatto che il sistema si basa sul non controllo reale delle bigliettazioni (possibile solo emettendo biglietti nominali, come allo stadio), che nessuno, né istituzioni, né operatori (molti di questi di promozione pubblica) vuole, perché è bene che il denaro finisca sempre nelle medesime tasche.
Il “prodotto” culturale
Ma le anime belle urlano che arte e cultura devono essere sostenute in quanto tali. Vero, ma fino ad un certo punto! Fuori uscendo dai parametri estetico-crociani si deve ricordare che se la “Cultura” è una entità astratta, il “prodotto” culturale, proprio perché prodotto, non può non esistere al di fuori di un rapporto costi-benefici. Spesso, invece, il significato del prodotto culturale, viene declinato esclusivamente sui soli costi di produzione, come se le istituzioni pubbliche fossero giganteschi uffici di collocamento e non sul reale interesse di un pubblico, invero sempre più “stanco” della “solita minestra”.
Occasione persa
Eppure, basterebbe poco: Sangiuliano – con iniziale critica di tutto il mondo intellettualmente “avanzato” – impose una bigliettazione alla visita al Panteon di Roma (5 euro), mentre a Parigi, quello che i francesi chiamano nel medesimo modo ha un biglietto di 13 euro, per un prodotto infinitamente più modesto. I fatti diedero ragione a questo mite e colto napoletano, inviso alla macchina burocratica e politica, tanto da aver subito, non poche volte, l’ostilità del suo sottosegretario Mazzi, molto meno rivoluzionario e più votato – non è dato sapere se per convinzione o per comodità – all’understatement.
Peccato! Quella di Sangiuliano è stata una occasione persa. Ogni tanto una rivoluzione sussurrata è necessaria e la cultura italiana ne ha un grandissimo bisogno.