(Liberamente tratto dai libri “Shackleton in the Antartict, being the story of the British Antartic Expedition 1907-1909“, di Ernest Henry Shackleton, W. Henemann , edizione 1911 e da “Endurance, an epic of polar adventure” di F.A. Worlsey, W.W. Norton & Comp., 1931)
Prologo
Parla Sir Shackleton, o, perlomeno, così mi piacerebbe che potesse parlare lui stesso a mo’ di apertura di questa storia:
Mi chiamo Ernest Henry Shackleton, Sir Shackleton per volontà di SM. il Re d’Inghilterra e Gran Bretagna Giorgio V, e sono nato in Irlanda il 15 Febbraio del 1874 da una famiglia numerosa della piccola borghesia anglo-irlandese di allora.
Voglio raccontare ai lettori del terzo millennio la storia della più straordinaria spedizione antartica alla quale partecipai, con altri valorosi compagni, a bordo della mia bellissima nave, l’Endurance, e voglio raccontarvela proprio in quest’anno 2022, ossia quando voi posteri ne avete localizzato il relitto nel gelo abissale del Mare di Weddell, dove giace, quasi intatta, dal 1915.
Cosa mi abbia spinto a viaggiare oltre ogni limite conosciuto al mio tempo dell’estremo Sud del nostro pianeta, anche a costo di enormi difficoltà ed indicibili sofferenze, l’ho scritto nell’incipit del mio diario:
“Gli uomini si spingono negli spazi vuoti del mondo per varie ragioni. Alcuni sono mossi dal solo spirito d’avventura, altri hanno una insaziabile sete di conoscenza scientifica ed altri ancora amano imprimere le proprie impronte fuori dai sentieri già percorsi. Io penso che, nel mio caso, vi fu una combinazione di questi fattori che mi spinsero a sfidare ancora una volta il mio destino nel glaciale Sud”.
Quello e solo quello mi ha spinto per anni a dedicare ogni mia fibra e la parte più bella della mia vita all’esplorazione dell’ignoto. Non lo feci per danaro, e non diventai certamente ricco, né per la gloria, che comunque conobbi per breve tempo, e ricordo benissimo che il mondo intero, passato l’entusiasmo iniziale, ben presto si dimenticò di noi durante i due anni in cui fummo dati per dispersi.
All’esplorazione pagai il prezzo estremo della vita, quando morii, all’ancor giovane età di 48 anni in una successiva missione per mare. Lo so, ciò che abbiamo fatto io ed il mio equipaggio potrà sembrarvi poco e, magari, quasi inutile.
So anche che siete persino andati sulla Luna, con strumenti scientifici ben più complessi, e per me inesplicabili, del mio sestante e della bussola, ma mi piace pensare che, persino nelle vostre esplorazioni spaziali, quell’esausto abbraccio che ci scambiammo sul pack, vera ricompensa per il nostro tanto ardire ed unica paga perla nostra tenace perseveranza, lo possiate conoscere pure voi. Solo allora saprete di non averlo fatto invano”.
(1) Le precedenti missioni e i preparativi per la “Endurance”
Nell’anno 1907 il comandante Shackleton non era nuovo alle grandi spedizioni polari, perché aveva partecipato alla missione “Discovery” nel 1901-1903, voluta dalla Royal Geographic Society e comandata da Robert F. Scott.
La spedizione di Scott, tuttavia, fu un parziale insuccesso, perché non riuscì a raggiungere il Polo Sud Magnetico, ma dovette arrestarsi in posizione 82.16° S e lo stesso Shackleton , rimasto indietro a fare la guardia ai preziosi cani da slitta, a loro volta decimati da una malattia, venne rimpatriato anticipatamente, almeno ufficialmente, per motivi di salute.
Oggi diremmo che venne “scaricato” da Scott. Ma la tempra di Sir Shackleton lo spinse a non rassegnarsi affatto a quel primo insuccesso. Al contrario, iniziò subito a progettare una “sua” missione antartica che potesse raggiungere il punto più meridionale della desolata distesa antartica.
Iniziò dunque ad esaminare attentamente quali potessero essere state le cause della rinuncia a raggiungere il Polo Sud e, tra queste, pensò inizialmente di sostituire i cani da slitta di razza samoieda con i tenacissimi ponies siberiani, dei cavallini da tiro, chiamati dai russi “Amourski”, che dai tempi della preistoria vennero usati in Jacuzia, nell’estrema Siberia.
Circa le slitte che i ponies avrebbero dovuto trainare, erano le migliori che Shackleton poté farsi realizzare, in Norvegia, ove si recò personalmente, progettate e costruite per ospitare a bordo le vettovaglie e l’imponente dotazione di strumenti scientifici di prospezione geologica, apparati meteorologici e quant’altro fosse necessario alla spedizione, che oggi definiremmo “multidisciplinare”, la quale si proponeva di fornire degli importantissimi riferimenti, anche e soprattutto strumentali, alla fiorentissima comunità scientifica di inizio del XX secolo.
Il grande esploratore polare giunse perfino a progettare e realizzare una rudimentale motoslitta da carico, spinta da un motore a benzina, una novità di sapore epocale perché nessuno poteva sapere se quel tipo di veicoli – benché, sia pure da pochi anni, le automobili in genere si stessero espandendo velocemente sulle strade di quasi tutto il mondo – nessuno avrebbe scommesso uno scellino sul funzionamento dei motori a combustione in climi proibitivi come quelli a cui erano destinati per la spedizione.
Le idee erano audaci e la sua missione del 1908, a bordo del “Nimrod”, una baleniera opportunamente adattata che salpò dalla Nuova Zelanda, ne furono il compimento. Le spedizioni terrestri, partite dalla Nimrod, riuscirono probabilmente a raggiungere il Polo Sud Magnetico, anche se l’ufficialità di tale traguardo viene attribuita alla missione di Roald Amundsen del 1911 e permisero alla missione Nimrod di raggiungere il punto geografico 88.23° S nonché di scoprire alcuni importanti ghiacciai.
Al suo ritorno in patria, a Shackleton vennero finalmente riconosciuti quei grandi meriti che gli appartenevano, benché egli non fosse ancora pago: gli mancava l’impresa delle imprese, ossia la traversata a piedi dell’intero continente antartico. Lo attendeva la spedizione “Endurance”, che realizzò pochi anni più tardi. Se vi piace questa storia, continuerò a raccontarvela alle prossime puntate.
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