Abbiamo lasciato i 28 componenti della spedizione Trans-Antartica, guidata da Ernest Shackleton, finalmente al sicuro, nell’Isola South Georgia. Restavano da portare in salvo i dieci uomini accampati nello Stretto di McMurdo, nel mare di Ross, ove erano sbarcati dalla nave-appoggio Aurora, con il suo comandante, Aeneas Mackintosh, mentre il suo secondo, Joseph Stenhouse, aveva infruttuosamente ripreso il mare, rimanendo presto incagliato con l’Aurora nei ghiacci antartici, riuscendo soltanto mesi dopo, con una navigazione fortunosa ed irta di pericoli, a tornare in Nuova Zelanda.
Un nuovo soccorso
L’indomito Shackleton decise quindi di guidare egli stesso, a bordo della nave Aurora, opportunamente riparata e rinforzata nei punti più critici dello scafo, una nuova spedizione di soccorso per quei dieci uomini a McMurdo Sound, senza nemmeno sapere che, purtroppo, tre di loro non ce l‘avevano fatta a sopravvivere al clima proibitivo di quei luoghi.
Non fu affatto semplice organizzarla e, soltanto all’inizio dell’estate australe, nel mese di gennaio 1917, fu possibile prendere il mare con rotta verso sud. Per quanto la precedente missione di soccorso avesse del miracoloso ed il suo esito positivo fosse largamente merito dei comandanti Shackleton e Worsley, Sir Ernest era tormentato e, nelle sue parole, si poteva percepire tutto il suo senso di responsabilità per la gloriosa storia di uno straordinario insuccesso, come lo fu, perlomeno, la spedizione Trans-Antartica, che non riuscì ad attraversare a piedi, coast to coast, il Continente di ghiaccio.
L’impresa della James Caird
Paradossalmente, in quegli anni si compì una delle missioni di esplorazione più straordinarie di tutti i tempi, perché, all’epoca, nessuno avrebbe scommesso un solo scellino sulla possibilità di ripercorrere a ritroso oltre 800 miglia a bordo di una piccola lancia baleniera, la James Caird, lunga soltanto sette metri.
D’accordo, era stata progettata ed attentamente supervisionata da Frank Worsley in persona, che aveva preteso dal cantiere Fraemnes che venissero utilizzati i migliori materiali in pino del Baltico, olmo americano e quercia inglese, ma 800 miglia nel mare in tempesta erano sempre 800 miglia!
Molti parlarono di un miracolo e nessuno poté, ne allora né dopo, dimostrare che non vi sia stata qualche collaborazione divina nella riuscita di un’impresa tanto disperata.
Quanto gli uomini della James Caird avessero percepito la presenza immanente e misteriosa di qualcosa o qualcuno che li precedesse, pochi passi avanti, durante l’estenuante marcia in montagna per raggiungere un villaggio ove chiedere soccorso per i loro compagni, è riportato in un passo del diario di Shackleton (il libro “South”) con queste parole:
Worsley si rivolse a me dicendo: “capo, ad un certo punto della marcia ho avuto una curiosa sensazione, come ci fosse stata un’altra persona con noi e Crean ha confessato la stessa sensazione. Si sente la mancanza di parole umane, la ruvidità del nostro linguaggio mortale nel tentativo di descrivere cose intangibili”.
I dieci dell’Aurora
Durante l’anno precedente, i dieci della nave Aurora, la cui storia è relativamente meno nota, ma non di certo priva di interesse, non avevano rinunciato costruire dei “depositi”, così denominati poiché avrebbero dovuto, nei programmi, costituire un supporto logistico per gli uomini di Shackleton, qualora fossero riusciti ad attraversare l’Antardide a piedi.
E soltanto poiché forniti del materiale necessario a costruire tali baracche in legno poterono sopravvivere, almeno parte di loro, fino all’arrivo dei soccorsi, circa un anno dopo. Razionando all’inverosimile le scarse provviste di cibo e cercando di stare riparati dal vento ad oltre 120 chilometri all’ora, conobbero momenti drammatici, al pari loro compagni dell’Endurance, per quanto a loro toccò il peggio.
Spintisi parecchio verso sud, nei pressi del ghiacciaio Beardmore, costruendo lungo il percorso diversi rifugi di fortuna, il capitano dell’Aurora, McKintosh, i suoi uomini e pochi cani superstiti, iniziarono ad avvertire i sintomi di gravi malattie, quali lo scorbuto, e le numerose ferite che riportarono durante la marcia iniziarono a farsi sempre più serie.
Quelli che non riuscivano più a camminare vennero adagiati sulle slitte e trasportati a ritroso, da un deposito all’altro, per cercare di ritornare verso Capo Hut, dove l’Aurora aveva attraccato, ma fu del tutto inutile per tre di loro: lo stesso capitano Mackintosh, Arnold Spencer-Smith fotografo e cappellano della spedizione e Victor Hayward, morti di stenti oppure sprofondati nelle acque gelide per la rottura dello strato troppo sottile del pack al passaggio delle slitte.
Il salvataggio dei superstiti
Credetemi, le vicende del gruppo del Mare di Ross sono così drammatiche e penose da raccontare che preferisco lasciarle all’immaginazione dei lettori. Ma anche per i superstiti di McMurdo Sound arrivò la salvezza, che aveva le sembianze della loro nave Aurora, perfettamente riparata e posta sotto il comando di Ernest Shackleton.
Era la mattina del 10 gennaio 1917 ed il giorno stesso iniziò il viaggio di ritorno verso la Nuova Zelanda coi sette superstiti, oltre ai quattro cani.
E così terminava l’intera missione della spedizione Trans-Antartica voluta e comandata da Sir Ernest Shackleton, con una delle più incredibili e riuscite missioni di soccorso di tutti i tempi, ancora oggi ricordata nelle accademie militari e navali del mondo intero come una linea-guida.
Per la verità, per i superstiti della spedizione il riposo fu assai breve, in quanto vennero presto arruolati e mandati al fronte, in una guerra che si prese tre di loro, mentre cinque rimasero feriti gravemente nello stesso primo conflitto mondiale.
Shackleton e Worsley
Un mio gentile lettore mi ha inviato questa frase di Raymond Prestley, il quale fece parte delle spedizione “Nimrod” di Shackleton del 1907-1909: “Datemi Scott a capo di una spedizione scientifica, Amundsen per un raid rapido ed efficace, ma se siete nelle avversità e non intravedete via d’uscita, inginocchiatevi e pregate Dio che vi mandi Shackleton“.
Le capacità di Ernest Shackleton, ma metterei senza indugio allo stesso livello Frank Worsley, furono talmente evidenti e di tanto superiori alla media da non necessitare ulteriori lodi. Quello che questi uomini fecero è stato descritto in minima parte in questo racconto, che ho dovuto condensare perché rimanesse soltanto un racconto.
Di certo, la perfetta simbiosi ed intercambiabilità nel comando, come l’identità di vedute, oltre che di tempra, tra Shackleton e Worsley è stato un elemento vincente. Non è così frequente che un grande comandante possa fare tanto affidamento sul suo secondo, per quanto Worsley non fosse formalmente il secondo di Sir Ernest, perché furono, rispettivamente, il comandante dell’Endurance e il capo spedizione.
La spedizione di Nobile
Saltando da un Polo all’altro, e parlando di dieci anni dopo la fine della spedizione Trans-Antartica, sappiamo oggi che non ci fu un vero e proprio secondo nella spedizione polare del gen. Umberto Nobile, con il suo dirigibile “Italia” e la celeberrima vicenda della “tenda rossa”.
Si parlò, nelle inchieste ufficiali che seguirono il disastro della spedizione di Nobile, della mancanza di un vero SIC (second in command) rispetto a Nobile, che era rimasto sveglio per oltre 32 ore e, a causa delle sue menomate condizioni psicofisiche, fece una serie di manovre sbagliate causando la caduta del dirigibile italiano sul ghiaccio del Polo Nord.
Ricordiamo soltanto la morte dell’esploratore Roald Amundsen, quello al quale venne attribuito ufficialmente il raggiungimento del Polo Sud, a discapito di Shackleton.
Ebbene, lo stesso Amundsen, benché con Nobile avesse avuto in passato assai da discutere, non esitò a correre in suo soccorso con il proprio aereo non appena seppe del disastro del suo dirigibile, ma cercando di raggiungere il suo collega-rivale perse la vita precipitando sul Mare di Barents.
Ma questa è un’altra storia, una di quelle che ad alcuni di noi ancora suscitano un sentimento di rispetto e di ammirazione per quello spirito di scoperta e di progresso scientifico, che non è mai esibizione fine a se stessa, perché unicamente mirata al mero superamento di sempre nuovi limiti. A qualcuno piace ancora ascoltare e raccontare ad altri le storie di certi uomini, più che dei limiti che essi hanno superato.
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