Mentre ci si avvicina alla cerimonia degli Oscar di quest’anno, tiene banco nel mondo del cinema e della cultura la sorte di un film che nel 1965 di Oscar ne vinse ben cinque, tra cui quello per la migliore attrice a Julie Andrews: Mary Poppins.
Proprio pochi giorni fa, infatti, il classico musical per famiglie di Robert Stevens non lo è più, o meglio non è più un film adatto alle famiglie. In Gran Bretagna, infatti, la sua classificazione ufficiale è passata da “film per tutti” a “film sconsigliato ai minori di 8 anni e adatto ai minori di 12 anni solo se accompagnati da una persona adulta”. Insomma, il classico “pallino giallo”, che tutti coloro che hanno vissuto negli anni delle videocassette e dei film in prima serata ricorderanno.
Il “visto censura”
Spieghiamo in breve ciò che è successo, cercando però di tenere presenti quanto possibile le implicazioni del fatto e delle reazioni, che in questi casi si collocano spesso a un livello di importanza non inferiore. In pratica, in occasione del 60esimo anniversario dell’uscita del celebre film Disney, i produttori hanno pensato di promuovere un nuovo passaggio nelle sale, in versione restaurata, come ormai di prassi sempre più consolidata. Il problema è che per uscire nei cinema si deve sempre passare da quello che un tempo in Italia si chiamava il “visto censura”, e che in Gran Bretagna è rilasciato dal British Board of Film Classification (BBFC).
I solerti addetti alla visione hanno però riscontrato nella pellicola la presenza di “linguaggio discriminatorio”, tanto da portare a una riclassificazione da “U” (che sta per “universal”, ossia per tutti) a “PG” (“parental guidance”, ossia sconsigliato ai bambini sotto gli 8 anni e da vedere con la presenza di un adulto per gli altri).
Il linguaggio incriminato
Ma che tipo di linguaggio ci sarà, in un musical per bambini del 1964? Beh, si trova l’uso del termine “hottentots” ossia “ottentotti”, termine indubbiamente dispregiativo, che in origine indicava i popoli nomadi Khoi e San incontrati dagli olandesi in Africa meridionale, e poi estesosi a definire genericamente dei “selvaggi” o i popoli africani.
A questo proposito, sarà forse utile inserire un piccolo inciso di cultura italiana: il termine era già ampiamente diffuso nel Settecento, e non aveva nella nostra lingua un carattere prettamente razziale, quanto più culturale: la celebre rivista Il caffè, edita a Milano tra 1762 e 1764 dai fratelli Verri e Cesare Beccaria vi faceva ricorso nel proprio manifesto programmatico, in cui si dichiarava che scopo della pubblicazione era quello di diffondere in Italia gli ideali della modernità illuministica, con la speranza di accrescere la proporzione di persone acculturate e aperte alla scienza e diminuire quella – appunto – di “ottentotti”, ossia di ignoranti semplicioni.
Ora, Mary Poppins è ambientato nella Londra del 1910, all’apice del colonialismo britannico – un periodo storico in cui stereotipi di tipo razziale erano indubbiamente diffusi. Eppure, nel film la parola incriminata, benché due volte, è pronunciata da un solo personaggio: l’ammiraglio Boom, un anziano veterano della Marina affetto da evidenti problemi con la memoria e la cognizione di causa – tanto che pensa di essere ancora al comando di una nave. Boom usa la parola “ottentotti” per riferirsi agli spazzacamini, perché ne vede i volti anneriti dalla fuliggine. Pare evidente che si tratta di un personaggio comico, e per di più palesemente da non prendere sul serio, data la sua non indifferente alienazione dalla realtà.
Eppure tanto è bastato per la British Board of Film Classification per limitare la diffusione e la possibilità di fruizione della pellicola: secondo una dichiarazione ufficiale rilasciata alla stampa britannica, “sebbene Mary Poppins si collochi in un contesto storico, l’uso di un linguaggio discriminatorio non viene condannato e questo va al di là delle nostre linee guida per il tipo di linguaggio accettabile in una classificazione U“.
Doppia morale
Insomma, in parole povere, si ammette che ci sia un contesto, eppure si tira dritto e si sceglie di segnare con la matita blu le singole parole – in senso letterale – che non corrispondono più al sentire contemporaneo. O meglio ancora al modo in cui una certa corrente di pensiero vorrebbe interpretare il sentire contemporaneo.
Perché, gioverà specificarlo di nuovo a questo punto, così da non doverci tornare in seguito, chi si preoccupa o risente per questa decisione non lo fa perché nella vita quotidiana sia solito apostrofare le persone “ottentotti” o perché voglia sentirsi tranquillo nel praticare discriminazioni. Lo fa perché è consapevole che la negazione dei contesti e l’applicazione acritica di principi anacronistici a opere d’arte e d’ingegno, con la conseguenza di limitarne la diffusione, corrisponda esattamente alla definizione di “censura”.
Eppure, oggi questa parola la si sente adoperare spesso, ma mai per indicare operazioni di questo tipo. Sulla censura si consuma uno degli esempi più eclatanti di doppia morale cui abbiamo modo di assistere al giorno d’oggi. La storia la conosciamo: se in un qualsiasi distretto scolastico americano, un’ipotetica scuola media “John Doe” decide di rimuovere dalla biblioteca “Il racconto dell’ancella”, perché ritenuto veicolo di contenuti inappropriati per gli studenti, il discorso pubblico parla apertamente di censura – e forse non a torto.
Se però la vicina scuola media “Jane Doe” fa lo stesso con “Il buio oltre la siepe”, accusato di veicolare un linguaggio poco inclusivo e stereotipi offensivi (esattamente come Mary Poppins), i toni sono ben diversi. Al massimo, sulla stampa mainstream si fa riferimento a una esagerazione in buona fede o a un errore commesso per eccesso di zelo: insomma, la classica vecchia storia dei compagni che sbagliano.
Ora, Oscar Wilde sosteneva che un certo grado di ipocrisia, quella necessaria per farci rispondere “bello” a fronte della richiesta di opinioni avanzataci in ufficio dal nostro capo, riguardo l’agghiacciante accostamento tra la sua nuova cravatta giallo limone e la vecchia giacca blu acceso, rappresenta la base stessa della società e una qualità indispensabile per la convivenza in un contesto civile.
Crociata moralista
Per quanto gli si possa dare ragione, tuttavia, si dovrà convenire che la situazione attuale sta sorpassando questa soglia di ipocrisia utile e accettabile, soprattutto se si pensa che la British Board of Film Classification ha recentemente rivisto anche il giudizio di Fight Club, alleggerendolo fino a portarlo alla classificazione di “15” (ossia visione sconsigliata ai minori di 15 anni), appena a due livelli di distanza da Mary Poppins.
Fight Club è sicuramente un film di pregevole fattura, e presenta anche spunti interessanti nella sua analisi dell’alienazione nichilistica che caratterizza la società contemporanea, però è innegabile che contenga una quantità di violenza davvero molto alta. Anzi, è costruito intorno ad essa, e alla sua rappresentazione grafica esplicita, nonché alla sua esaltazione, tanto estetica quanto morale.
Inoltre, nel film di David Fincher vengono mostrati atti criminosi e sessuali di ogni tipo, e si fa uso sistematico di linguaggio non certo compassato. Tutto questo non è per lamentare che non vengano imposte restrizioni più rigide a Fight Club, ma soltanto per sottolineare come se si è arrivati ad avere appena due livelli di distanza tra questo film e una commedia musicale in cui una tata dotata di poteri magici riporta felicità e armonia nella famiglia di un austero bancario londinese, la situazione vada ormai al di là dell’ironico.
Il fatto che la parola “ottentotto” pronunciata da un personaggio buffonesco arrivi ad avere un peso specifico superiore a quello di volti spappolati a suon di botte, è un sintomo, una spia che ci mostra come oggi ci troviamo di fronte alla più vasta crociata moraleggiante degli ultimi cinquant’anni – una crociata che, come da definizione, si muove rispondendo a peculiari posizioni ideologiche, anche quando risultano così evidentemente sconnesse dalla realtà.
Quasi nessuno parla di censura, quando il film di Robert Stevenson, a lungo uno dei capolavori più acclamati della Disney, riceve una strigliata dalle autorità, perché la Disney stessa sta da anni aderendo in prima persona alla crociata, tanto che ormai inserisce sulla propria piattaforma di streaming disclaimer che mettono in guardia dalla presenza di tematiche e linguaggio potenzialmente offensivo e non rispettoso dal punto di vista culturale perfino nelle puntate dei Muppets. Sì, i pupazzettti di Sesame Street.
Il ruolo degli intellettuali
Non solo, le personalità del mondo culturale spesso approvano, quando non plaudono apertamente. Leshu Torchin, docente di studi cinematografici presso l’Università di St. Andrews, la più prestigiosa della Scozia, ha dichiarato al New York Times che la nuova classificazione di Mary Poppins era necessaria, perché altrimenti “i bambini potrebbero guardare un film e, se non aiutati a contestualizzarlo, potrebbero finire per pensare che un linguaggio di quel tipo sia accettabile, e quindi rimanere danneggiati da ciò che hanno appena visto”.
Candice Frederick rincara la dose sulle pagine di HuffPost, scrivendo che l’inasprimento nel giudizio di Mary Poppins “è totalmente meritato”, per via della presenza di una parola “molto pericolosa”. La giornalista si sforza almeno di presentare la cosa in modo un minimo dialettico, per non farla passare come una mera proibizione draconiana: la restrizione, a suo dire, creerebbe “un’opportunità vitale per gli adulti di parlare ai ragazzi e spiegare loro perché questa parola sia così dannosa” anche se, in realtà “è difficile pensare che tali conversazioni avverranno in molte case”. Insomma, si sa, c’è poco da fidarsi dei genitori, e nel dubbio è meglio limitare la diffusione di materiale tanto pericoloso come Mary Poppins.
Voci critiche
Credo che sia evidente come, al netto di ogni auspicio di riflessione – guarda caso sempre mirata a sottolineare quanto piena di stereotipi indice di gravi colpe sia la nostra cultura – restringere la possibilità di fruizione di un’opera è inequivocabilmente censura. E se quasi nessuno lo dice, la nota positiva di questa vicenda va ricercata proprio in quel “quasi”. Stavolta si sono alzate anche voci critiche, all’interno della comunità intellettuale sulle due sponde dell’Atlantico.
Una particolarmente degna di nota è quella della poetessa e scrittrice americana Nikki Giovanni, che tra l’altro ha conosciuto in prima persona le conseguenze di atteggiamenti censorî. Una delle sue opere, Rosa, un libro illustrato per bambini sulla vita della nota attivista afroamericana Rosa Parks, è stato soggetto a divieti in vari Stati americani, per via del suo contenuto, ritenuto potenzialmente in grado di creare turbamento nei ragazzi.
Nikki Giovanni compare in un documentario presentato all’ultimo Sundance Film Festival, The ABCs of Book Banning, nel quale sostiene che non solo nessun libro debba essere sottoposto a restrizioni, ma neppure un termine, a prescindere da quanto odioso qualcuno possa trovarlo.
“Vietare una parola significa darle potere su di noi”, afferma la poetessa: e “non c’è nessuna parola che dovrebbe avere un tale potere. Se è una parola, possiamo usarla. Certo, può non piacere. Qualcuno potrebbe non volerla sentire. Ma non si può dare a una parola tale potere. Le parole devono essere libere”. È proprio su tutti noi, il pubblico potenziale di ogni opera, che Giovanni pone poi l’accento: “Siamo noi che dobbiamo decidere cosa fare delle parole che sentiamo e che diciamo”.
Questo ragionamento – temo – non deve infonderci un eccessivo ottimismo: la cancel culture è un fenomeno storico che non ha certo ancora esaurito la sua spinta propulsiva. Di conseguenza, dovremo verosimilmente assistere ancora per un tempo non facile da determinare alle sue manifestazioni moralizzatrici, pervasive e aggressive.
Pericolo per la cultura occidentale
Allo stesso modo, una volta innescata questa sorta di corsa alla censura – che pur nel 2023 ha raggiunto dei picchi fino a pochi anni fa impensabili, come abbiamo descritto alcuni mesi fa in un altro articolo qui sulle pagine di Atlantico Quotidiano – non sarà semplice arrestare le ricorrenti ondate di censure, ostracismi, esclusioni, manipolazioni, riscritture, tentativi di cancellare opere e autori.
Tuttavia, ritengo che sia di fondamentale importanza vedere come sorgano sempre più voci che si oppongono a questa tendenza, e soprattutto come anche all’interno del mondo dell’accademia e della cultura, che ha visto nascere in sé la cancel culture stessa, sempre più personalità si rendano conto di come le sue conseguenze non siano altro che negative – e potenzialmente molto pericolose per la libertà di espressione e per l’esistenza stessa di una cultura occidentale.
Ciò che possiamo realisticamente auspicare è che, anche grazie a voci discordanti si spera sempre più numerose, sarà possibile riportare il confronto a livello dei contenuti, anziché di ricerca di parole shibboleth, la cui mera esistenza in un’opera la rende “intoccabile” e degna di damnatio memoraie.
Già, perché Mary Poppins non è in alcun modo né ad alcun livello equiparabile a Nascita di una nazione: non porta avanti un progetto consapevole di apologia e idealizzazione del Ku Klux Klan, e far finta che lo sia rappresenta un autentico insulto al buon senso, prima ancora che alla libertà di fruizione delle opere artistiche e culturali.
Fino ad allora, non ci resta che sottolineare ogni volta i livelli grotteschi a cui sono giunte le declinazioni di questa autentica caccia alle streghe animata dal fanatismo epuratore della cancel culture, consapevoli che cercare di riderci sopra non sia uno sminuire il pericolo, ma il contrario: un prendere atto della potenziale pericolosità per la nostra cultura di questo movimento fondamentalmente totalitario – che, come tale, si prende tremendamente sul serio e aborrisce essere messo in ridicolo ancor più che essere attaccato frontalmente.