Ecco, anche quest’anno è arrivato Natale. In questo giorno abbiamo celebrato la nascita di Gesù Cristo, una “figura” polimorfa, adattabile e popolare al tempo stesso; ora rappresentato biondo o castano chiaro, spesso con gli occhi cerulei, ora – come per i pittori fiamminghi – rossiccio di pelo, manco avesse natali a Bruges. Le icone bizantine lo ricordano con lo sguardo profondo e scuro, tipico delle popolazioni mediterranee. Come fossero le reali fattezze di Yĕhošūa ben Yosef (nome del Cristo in aramaico) – con ampio credito storico, personaggio realmente esistito – non è dato sapere, ma poco conta.
Poco interessa se – come ovvio che sia – avesse lineamenti medio-orientali; il suo “polimorfismo” impone una immagine rassicurante, funzionale alla divulgazione e, quindi, al potere costituito. La rappresentazione del Cristo è rappresentazione “canonica” del potere; è potere in re ipsa. Con l’avvento delle ideologie di massa, ecco “il Figlio dell’uomo” divenire funzionale a talune dottrine.
In un articolo pubblicato su La Giustizia del 5 febbraio 1888, Camillo Prampolini, uno dei padri del socialismo italiano, scriveva: “Sì, Gesù fu socialista […]”. Questo messaggio così secolare divenne – discusso, ma convincente – spot pubblicitario del PSI negli anni Ottanta.
Nella nostra contemporaneità il potere, multiforme ed adattabile, ma fedele solo a se stesso ed alla sua vulgata, rappresenta il “bambinello” avvolto nella kefiah – copricapo arabo – divenuto simbolo del patriottismo palestinese. Ecco che Gesù rinasce sotto le macerie della Gaza di Hamas e viene bombardato: “L’esercito israeliano ha ucciso Gesù bambino più di 10 mila volte” pubblica il magazine Informare.
Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia accademia per la vita, e molto vicino a Jorge Bergoglio, sull’Unità del 24 dicembre, esordisce – in un suo editoriale – con queste parole: “Gesù bambino: era ebreo e palestinese, migrante e irregolare […]”. Ecumeniche le parole del presule, ma solo nella forma, come si confà a chi indossa l’abito talare.
In verità malignamente funzionali ad una vulgata legittimante una certa contemporaneità, che deforma il passato. In altri termini il nuovo potere costituito vuole che il “bambinello”, sia un palestinese, di incidentale religione ebraica, sottoposto alla violenza dai militari israeliani che sono i nuovi “deicidi”, come per – quasi – duemila anni il potere costituito ha chiamato gli ebrei.
Gesù non era palestinese
Eppure, alcune cose sono sotto gli occhi di tutti. Si prenda il vangelo del giorno di Natale; nel Vangelo di Luca (2, 1-4) si legge: “In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide[…]”.
Certo che i fatti riportati da Luca sono confusi e contraddittori. Il censimento di Quirino, venne effettuato il 6 d.C. dopo che la Giudea passò sotto controllo romano, quando Augusto si sbarazzò dell’etnarca Erode Archelao, figlio di quell’Erode il Grande, morto probabilmente il 4 a.C., colpevole della “strage degli innocenti” (Matteo 2,1-16). Difficile, poi, pensare che Giuseppe e Maria residenti in Galilea, provincia amministrata dal tetrarca Erode Antipa e de facto, indipendente, si spostassero in Giudea per sottoporsi ad un censimento che non li riguardava, se non vi fosse la necessità dell’evangelista di trovare un legame con la profezia di Michea (Mic 5,1) che identifica in Betlemme la città natale di “colui che sarà Dominatore in Israele”, del Messia. Non si può chiedere una vichiana coerenza geografica e cronologica ad un “profeta”.
Ciò che è necessario è vedere che si parli di Galilea, di Giudea e di Siria, ma non di Palestina. Yĕhošūa ben Yosef poteva essere, per origine, galileo (come venne denominato), giudeo, al limite siriaco, ma non poteva essere palestinese, per il semplice fatto che la Palestina non esisteva. No, non si tratta di nominalismi, ma di riconoscere che la Palestina come entità storica e culturale non era mai esistita.
Il nome Palestina
Dopo la rivolta di Bar Kokba del 135 d.C. con la successiva sanguinosa repressione che portò ad una diaspora ben superiore a quella del 70 d.C., ecco che Roma – per cancellare anche la memoria dei giudei e della loro terra e del mito del regno di Israele – cambiarono il nome alla provincia della Giudea in Syria Palaestina, sotto controllo diretto del governatore di Siria. Il termine Palestina, opportunamente neutro, per i Romani, risaliva al nome greco Παλαιστίνη, che forse aveva origini assire con il significato di “terra dei filistei”.
Da allora sia sotto l’Impero romano, sia sotto l’Impero bizantino, sia sotto i vari califfati arabi esistette una provincia di nome Palestina, i cui confini, però si modificavano di continuo, ma sempre più piccoli del rivendicato territorio “dal mare al fiume”.
La ripartizione turca
Poi, ecco, che con l’arrivo dei turchi (1517) non solo cessa l’utilizzo di questo antico nome, ma la zona viene divisa in differenti ripartizioni amministrative. Il territorio palestinese era unito a quello siriano formando la Grande Siria, che divenne una provincia ottomana (eyalet) governata dalla città di Damasco.
Il territorio in sé “palestinese” venne diviso in cinque distretti provinciali chiamati senjak (Safad, Nablus, Gerusalemme, Lajjun e Gaza), a loro volta divisi in sottodistretti chiamati nawahi. Con la creazione di una nuova partizione territoriale dell’Impero – i Vilayet – nella seconda metà dell’Ottocento, quella che fu l’antica Palestina venne divisa tra due Vilayet (Beirut e la Siria) con una sotto ripartizione di quest’ultima nel Mutasarrifato di Gerusalemme che assieme al Sangiaccato di Nablus ed al Sangiaccato di Acri costituivano la regione comunemente chiamata “Siria meridionale”. Ecco che secolo dopo secolo quella porzione di terra che univa il Libano all’Egitto ed all’Arabia venne indissolubilmente legato alla Siria.
L’immigrazione di ebrei
Caduto l’Impero Ottomano e come conseguenza della rivolta araba, ecco che l’hascemita Faysal ibn al-Ḥusayn (sì quello immortalato da Alec Guinness nel “Lawrence d’Arabia”) cercò di dare vita ad un Regno arabo di Siria che comprendeva l’attuale Siria, Giordania, Libano e “Palestina”, favorendo – grazie ad un compromesso con il presidente del consiglio francese Clemanceau e con il leader sionista Weizmann – l’immigrazione di ebrei dall’Europa.
Questa, già iniziata nella metà del XIX secolo, ebbe un nuovo impulso fra il 1880 e il 1883, quando le persecuzioni antiebraiche dell’Impero russo spinsero miglia di ebrei ad emigrare verso la “terra dei padri”.
Un’idea di stato moderno
L’effimero regno di Siria venne spazzato via dalle logiche spartitorie di Gran Bretagna e Francia che, oltre ad una amministrazione imposta importarono nel Medio Oriente una idea di statualità che mai era esistita nel mondo arabo, tradizionalmente diviso in dār al-Islām (casa dell’Islam, ovvero dove risiede la Umma, la comunità dei fedeli) ed il dār al-ḥarb (“Dimora della guerra”, il resto del mondo). D’altronde il sistema economico locale, basato molto sul nomadismo della popolazione, portava a privilegiare il riconoscersi nell’appartenenza ad un clan o ad una tribù, piuttosto che ad uno stato o a una “nazione”.
Ecco che la Gran Bretagna, avendo il controllo (Mandato) dei territori che andavano dal Libano all’Egitto, rispolverò l’antico nome di Palestina ed importò una idea di organizzazione della cosa pubblica, che era abituale nell’Europa post-wesfaliana (1648). Di conseguenza venne importata nel Medio Oriente una idea di stato “moderno”, laico, ma soggetto all’influenza di ideologie, che erano non naturali a quelle latitudini geopolitiche.
Questo, unitamente ad una immigrazione dall’Europa di popolazione ebraica (dal 1919 al 1939 341.581 unità) che passarono dal 9,5 per cento al 30 per cento della popolazione globale, favorì lo scontro tra etnie, esistente ancor adesso.
La fondamentale differenza tra le due etnie era che – provenendo in gran numero dall’Europa – gli “ebreo-palestinesi” erano culturalmente attrezzati ad affrontare l’idea di una unità statuale moderna. Essi possedevano – e posseggono – una “lingua” specifica ed escludente, una “cultura” comune ed una ideologia dominante laica (il sionismo), ancora oggi alla base di quasi tutti i partiti politici israeliani dall’Ha’Avodà (il partito laburista) al Likud (il partito di destra, attualmente al governo).
Per gli “arabo palestinesi” è stato differente. L’impatto con la modernità portò al sorgere di pulsioni politiche contraddittorie: pan-arabismo, nazionalismo, fondamentalismo religioso (più figlio dell’impatto con l’Occidente, che portato della tradizione islamica). Ecco che queste popolazioni si trovarono sballottate tra differenti istanze e appartenenze, senza avere la capacità di scegliere in modo univoco.
Con fare caustico Golda Meir, che pur disse: “siamo tutti palestinesi”, sventolando il passaporto che le era stato rilasciato al suo arrivo in Palestina nel 1921, negò una reale esistenza di una specifica identità nazionale palestinese: “Non ci sono palestinesi, ci sono arabi”.
L’identità palestinese
Ecco, quindi, che si comprendono gli alibi utilizzati nei decenni dalle élite arabo-palestinesi nel non volersi adattare ad una identità statuale moderna, con i conseguenti, inevitabili, compromessi (si veda il rifiuto di Yasser Arafat alla generosa proposta di Ehud Barak con lo stolido richiamo ai non più attuali e credibili confini del 1948).
Certo che l’amministrazione di uno Stato richiede responsabilità, che non tutti sono in grado di affrontare, ma il fatto – al di là delle personali opinioni e delle simpatie che i fatti generano – sussiste: presso i palestinesi manca una vera idea di stato moderno e tutto ciò che è accaduto nell’ultimo secolo non è stato insegnamento sufficiente.
Si potrebbe dire che il vero senso di identità comune che si è sviluppato presso i “palestinesi” è il sentirsi all’opposto degli israeliani: elemento destruens, ma non construens. Essi sanno cosa non sono e cosa odiano, ma non riescono ad individuare una proposta politica propositiva, al di fuori del conflitto con Israele.
Si potrebbe dire, estremizzando, che è l’esistenza stessa di Israele a legittimare l’idea di uno stato palestinese. Senza uno stato ebraico quelle popolazioni, come diceva la Meir, sarebbero solo arabi. No, mons. Paglia ha torto. Gesù non è mai stato palestinese, perché l’entità palestinese è ancora in divenire. Buone Feste a tutti!