Mutatis mutandis, il Partito Democratico ha subito nel secondo Dopoguerra una mutazione ideologica che oggi lo porta ad essere la sede del progressismo e delle diversità, intese tuttavia in termini collettivisti e non col fine ultimo di valorizzare la sacralità dell’individuo, come richiederebbe un approccio veramente liberale.
Eppure, questa metamorfosi trascinò con sé forti contraddizioni. Il vecchio e il nuovo corso hanno infatti convissuto nel Partito per decenni.
Il welfare state di Roosevelt
Proseguendo nella panoramica storica, dopo gli anni Venti a guida Repubblicana, nel 1932 venne eletto Franklin Delano Roosevelt. Iniziò così una disastrosa presidenza di dodici anni, seguendo idealmente l’esempio wilsoniano nell’avvicinare gli Stati Uniti alle socialdemocrazie europee.
Gradualmente, la comunità afroamericana, attratta dal welfare del New Deal, lasciò il Gop e iniziò a votare per i Democratici.
Un cambiamento epocale che strideva con la presenza ancora pressante dell’ala razzista nel Sud del Paese. I Dixiecrats (Democratici del Sud) avranno brindato quando l’ex KKK Hugo Black arrivò alla Corte Suprema nel 1937, o quando lo stesso Roosevelt si rifiutò di accogliere alla Casa Bianca Jesse Owens di ritorno dalle Olimpiadi di Berlino del 1936. È invece ancora da stabilire la presunta vicinanza di Harry S. Truman al KKK.
Lyndon Johnson e i Dixiecrats
L’establishment Democratico stava cambiando pelle, ma doveva ancora tenere i piedi in due scarpe per mantenere l’appoggio elettorale dei segregazionisti, ai quali era vicinissimo anche il texano Lyndon Baines Johnson.
Quello stesso presidente Johnson che, prima di inaugurare la Great Society e firmare il Civil Rights Act del 1964, ostacolò in Senato le legislazioni Repubblicane del 1957 e del 1960, nullificando il loro impatto sui diritti civili.
Vecchio alleato del Dixiecrat Richard Russell, Johnson fu il baluardo dell’ipocrisia Democratica, come denunciò Malcolm X nei caldi anni delle rivendicazioni, spingendo il suo pubblico ad interrogarsi sulla sincerità del presidente e dei suoi legami politici.
L’atto del 1964 venne firmato da Johnson, ma votato in percentuale maggiore dai Repubblicani al Congresso. Contrariamente alla narrazione comune, tra i 21 Dixiecrats che si opposero alla legge, solo Strom Thurmond passò con i Repubblicani.
Gli anni ’60 e il mito del party switch
Gli anni Sessanta consacrarono il Partito Democratico a difensore delle minoranze dai soprusi della supremazia bianca che, ironia della sorte, venne improvvisamente additata agli avversari. Il famoso party switch del 1964 è una delle tante inesattezze storiche propinate dal sistema scolastico americano.
Il mito afferma che il razzismo abbia trovato dimora fra i Repubblicani, e che il loro successo a Sud sia la naturale conseguenza dell’opposizione di Barry Goldwater al Civil Rights Act (questione già ampiamente chiarita su Atlantico). Si tratta di un autentico scambio di identità che però non trova riscontro nell’evidenza storica.
Il successo del Gop al Sud
Difatti, l’affiliazione sudista per i Repubblicani arrivò sostanzialmente solo alle midterm elections del 1994, e questo non perché i Repubblicani stessero perpetrando il vecchio odio Democratico.
Come ricordano gli studiosi di Harvard Byron e Schafer nel loro “The end of Southern Exceptionalism”, il Gop offriva quell’enfasi sul governo minimo, sul possesso delle armi e sul conservatorismo sociale che ben si adattava alla classe media del nuovo Sud post-segregazione, in dissonanza con una working-class bianca che continuò imperterrita a votare Democratico per molto tempo.
Louisiana, Alabama, Mississippi e Georgia hanno cominciato ad eleggere governatori Repubblicani solo rispettivamente dal 1980, 1987, 1992 e 2003, confutando la narrazione che riporta un Gop dilagante al Sud sin dal 1964.
Al graduale declino della questione razziale al Sud è perciò corrisposto un decisivo incremento dei consensi per il Partito Repubblicano.
Se è vero che nel 1972 Richard Nixon vinse ampiamente in quei territori, è altrettanto vero che nel 1976 Jimmy Carter li recuperò facilmente e che nel 1980 Ronald Reagan vinse al Sud con margini strettissimi, addirittura perdendo in Georgia.
Gli irriducibili razzisti Dem
Nel momento in cui, secondo il mito, i Repubblicani si stavano appropriando del Sud, gli irriducibili alfieri dell’odio razziale rimasti al potere erano ancora Dixiecrats. Citando i più noti, ricordiamo i governatori Ross Barnett (Mississippi), Lester Maddox (Georgia) (poi vice di Carter nel 1971), George Wallace (Alabama) e Orval Faubus (Arkansas), il commissario Bull Connor, nonché i senatori J. William Fulbright e Al Gore Senior.
Dal West Virginia vi era poi il senatore Robert C. Byrd, ex membro giovanile del KKK, mentore dei Clinton e di Joe Biden, in carica dal 1959 al 2010 senza che molti si scandalizzassero per il suo passato oscuro.
Rimozione e mistificazione
È curioso ricordare come l’appartenenza politica di queste persone sia stata spesso oscurata o, nella peggiore delle mistificazioni, identificata nel Partito Repubblicano. Basterebbe questo a dimostrare che l’odio razzista era ancora Democratico.
E invece, in poco tempo, sulla scorta della Southern Strategy, ad ogni candidato della destra a partire da Goldwater verrà immeritatamente affibbiato il marchio di suprematista. Repubblicano cominciò a fare rima con impresentabile e intollerante, cancellando un secolo di lotte Repubblicane per l’uguaglianza razziale.
È doveroso precisare che non si sta negando la presenza di simpatie razziste all’interno del Gop (ve ne furono e ve ne sono), ma semmai riconoscere che, per più di un secolo, il vero odio è sempre stato dall’altra parte.