A volte un autore considerato fuori moda può offrire preziosi spunti di riflessione. A mio avviso Oswald Spengler, autore della celebre opera “Il tramonto dell’Occidente” (tradotta in italiano da Julius Evola), è un esempio emblematico in questo senso.
Natura e storia
Per comprenderne il significato occorre partire dalla distinzione tra “natura” e “storia”, tema peraltro peculiare dello storicismo tedesco contemporaneo, al quale è strettamente collegato un altro tema importante (e ancora attualissimo), quello della distinzione tra scienze della natura da un lato e scienze dello spirito e della realtà storico-sociale dall’altro. È, com’è noto, una distinzione che si ritrova già in Dilthey, per quanto formulata in maniera diversa e analiticamente più rigorosa.
I termini “natura” e “storia” denotano due realtà radicalmente differenti, e la loro antitesi non esprime soltanto l’essenziale storicità degli esseri umani, ma rimanda anche all’antitesi affine tra “divenuto” e “divenire” che fu oggetto costante della riflessione filosofica di Goethe. La natura è ciò che è divenuto, vale a dire ciò che il divenire ha prodotto per assumere poi una forma statica. La storia, d’altro canto, è il divenire, identificato con il processo della vita nella sua “realizzazione del possibile” in maniera necessaria.
Mentre la natura è il regno dello spazio e dell’estensione, la storia è il dominio del tempo e della direzione, e quest’ultima ne tratteggia il carattere di irreversibilità. “Il tramonto dell’Occidente” insiste – in modo quasi ossessivo – su tale antitesi che non trova alcun elemento di mediazione. Ciò non elimina, tuttavia, l’identica origine dei due termini, dal momento che la storia fornisce la base della natura, essendo essa il prodotto del divenire biologico da cui sorgono tanto l’uomo quanto le civiltà. La natura, il divenuto, altro non è che la cristallizzazione del divenire in una forma determinata nella quale si arresta lo sforzo creativo della realtà.
L’antitesi tra natura e storia viene però sviluppata da Spengler anche sul piano cognitivo, poiché sono governate da due logiche molto diverse: da un lato la logica “meccanica”, propria della natura, dall’altro la logica “organica” che caratterizza la storia. In questo senso Kant viene accusato di aver limitato la sua indagine critica alle scienze della natura, senza tener conto del carattere autonomo e originale della ricerca storica, e di aver trascurato la fisionomia logica peculiare dello sforzo di comprensione della storia.
La logica meccanica si fonda sul principio di causalità prendendo in considerazione spazialità ed estensione, mentre la logica organica, che non è sottoposta a leggi causali, si volge a temporalità e direzione. Il positivismo ha dunque torto quando proclama il primato assoluto della logica meccanica.
La storia non può venir compresa con un procedimento di tipo intellettuale e con la ricerca del rapporto causa-effetto, dal momento che ogni accadere è unico, irripetibile e quindi reca il segno della direzione del tempo, dell’irreversibilità. Dunque strumenti necessari alla comprensione della storia non sono ragione e riflessione critica, bensì intuizione, sentimento ed esperienza vissuta (“Erlebnis”); ne consegue che soltanto l’immediatezza è capace di capire il divenire nel suo processo creativo, e ogni autentica ricerca storica deve per l’appunto fondarsi su di essa.
Le civiltà
Tutto questo è solo premessa per affrontare il problema fondamentale: il futuro della civiltà occidentale. Costante e angosciosa si presenta la domanda circa il corso della storia europea (e americana) e sul suo destino. Prima, però, occorre chiarire cos’è una “civiltà” e il suo rapporto con la natura e con la storia. Continua è la polemica splengleriana contro la concezione unitaria dello svolgimento storico, giacché è necessario concepire la storia dell’umanità come manifestazione di una molteplicità di forme differenti, cioè di diverse civiltà, dotate ognuna di una propria vita e di un proprio sviluppo autonomo.
Ogni civiltà è un “organismo” unico, e dell’organismo possiede i caratteri fondamentali. Ogni civiltà ha la sua nascita, la sua crescita, la sua decadenza, la sua morte, proprio come qualsiasi organismo biologico: l’appartenenza della civiltà a un tipo organico rappresenta al tempo stesso la sua determinazione ineluttabile entro una linea di sviluppo cui non può sottrarsi. Essa sorge quando “un’anima si stacca dallo stato primitivo dell’umanità”, e cresce restando legata al suolo in cui è sorta, per decadere e morire quando la somma delle sue possibilità si è ormai esaurita.
Ogni civiltà è un organismo appartenente a un medesimo tipo. La storia universale è la “biografia totale” delle diverse civiltà e lo svolgimento dell’umanità è sottoposto a un rigoroso determinismo biologico. Il complesso di possibilità di cui ogni civiltà dispone all’inizio del suo sviluppo viene così interpretato alla luce della necessità biologica che governa la sua esistenza, e impiegato per designarne l’autonomia e la relatività, che a sua volta deriva dal suo orizzonte chiuso a ogni autentica forma di relazione e di comunicazione.
Infatti ogni influenza che una civiltà ha ricevuto da un’altra, secondo Spengler, è stata con ciò stesso modificata radicalmente ed inserita entro un nuovo linguaggio formale e un nuovo mondo simbolico. Parimenti, ogni tentativo di penetrare un’altra civiltà non può svincolarsi dall’orizzonte chiuso della civiltà propria di chi effettua tale tentativo, e non riesce quindi a intenderla nella sua alterità.
Civiltà in declino
Di qui lo sforzo di individuare lo sviluppo tipico di ogni civiltà nella sua parabola prima ascendente e poi discendente, fino all’esaurirsi del proprio complesso di possibilità e cioè fino alla morte, e di porre in luce la fisionomia peculiare di simbolismo e di linguaggio che si manifesta in ogni aspetto della sua esistenza. L’esame del succedersi delle vicende politiche ed economiche consente di individuare il suo progressivo trasformarsi in una “civiltà-in-declino”, da cui inizia il ritorno entro l’ambito puramente biologico e zoologico dell’umanità primitiva.
La logica della storia, in quanto logica organica, ha il suo principio nella necessità del destino, che la vita avverte mediante l’immediata coscienza della propria irreversibilità: “l’idea del destino richiede un’esperienza della vita, non l’esperienza scientifica, la forza dell’intuire e non il calcolo, la profondità”. Il destino rappresenta l’antitesi della causalità, in quanto indica la “necessità” della storia: esso presiede al divenire dei fenomeni nella loro singolarità irripetibile, come la causalità governa invece la connessione dei fenomeni ripetibili nell’ambito spaziale, e li connette tra di loro in uno sviluppo temporale.
Il tramonto dell’Occidente
Da esso giunge pure la risposta al problema della crisi della civiltà occidentale e del suo avvenire, risposta che si fonda sulla possibilità di una predeterminazione della storia in base allo sviluppo che ogni civiltà non può non percorrere per i caratteri essenziali del tipo di cui fa parte. Il futuro dell’Occidente può venir previsto proprio perché la civiltà occidentale seguirà un cammino conforme a quello di tutte le altre e imposto dalla necessità organica del destino. Il tramonto dell’Occidente, così considerato, designa nientemeno che il problema della “civiltà-in-declino”.
Si pone qui una delle questioni fondamentali di ogni storia superiore. Che cosa è la “civiltà-in-declino”, intesa come conseguenza logico-organica, come compimento e conclusione di una civiltà? Una volta stabilito che inevitabilmente ogni civiltà termina in una “civiltà in declino” (“Zivilisation”), e che questa significa l’esaurirsi del suo complesso di possibilità, succedendo alla fase creativa come il divenuto segue al divenire, e la morte alla vita, il destino dell’Occidente è con ciò stesso determinato in maniera precisa, esauriente, definitiva. L’Occidente è ormai entrato nella fase della “civiltà-in-declino”, e pertanto è prossimo al suo tramonto: esso sta per terminare la sua vita e per ritornare nell’ambito dell’umanità primitiva.
Sono note le critiche neopositiviste (in particolare da parte di Otto Neurath) e di Karl Popper alla filosofia della storia di Spengler. Eppure, leggendolo, si avverte un senso d’inquietudine difficile da reprimere. Poiché risulta pur vero che nascita, apogeo, declino e morte di grandi civiltà formano l’ossatura stessa della storia (o, almeno, di quella umana). Può darsi che la scelta del termine onnicomprensivo “civiltà” non sia felice, ed è anche plausibile pensare che la pretesa di determinare in modo esatto le varie fasi della sua parabola sia eccessiva. Ciò non elimina la sensazione di trovarsi di fronte a un problema reale, ineludibile nonostante il linguaggio spesso barocco ed eccessivo utilizzato da Spengler per tematizzarlo.