La cancel culture è il Grande Fratello orwelliano di “1984”. Un fenomeno deleterio, in continua espansione, capace di ridurre le rappresentazioni della storia dell’umanità alla semplice scelta tra vero o falso, conforme o non conforme, puro o impuro, etico o non etico, morale o amorale. Una forma di controllo sociale che riduce la libertà a concetto astratto, una neolingua tinta di conformismo, una “dolce censura”.
Nel 2020, più di 150 monumenti americani sono stati abbattuti: da George Washington ad Andrew Jackson, passando per F. D. Roosevelt, fino ad arrivare ad Abraham Lincoln e Ulysses Grant. La statua di Winston Churchill a Parliament Square è stata coperta dalle autorità per evitare che venisse imbrattata dai manifestanti; mentre quella di Cristoforo Colombo abbattuta da manifestanti di Black Lives Matter a Baltimore. Danneggiata, invece, quella di Gandhi, colpevole di non aver usato la violenza nella lotta per l’indipendenza indiana contro l’impero britannico.
Come riportato da un articolo del 7 settembre 2021 di National Post, in più di trenta scuole dell’Ontario sono stati bruciati oltre 4.700 libri come “atto di riconciliazione con gli indigeni”; a Edimburgo è in corso una campagna per abbattere la statua dell’economista Adam Smith; l’editore olandese Blossom Books ha deciso di rimuovere il personaggio di Maometto dal Canto XXVIII della Divina Commedia.
La cancel culture continua ad espandersi a macchia d’olio nelle democrazie occidentali. Mentre l’intero blocco atlantico ed il popolo ucraino combattono, l’uno economicamente e l’altro militarmente, contro il regime di Putin, da più di vent’anni protagonista di carcerazioni dei dissidenti, giornalisti scomodi e oppositori, l’Occidente sembra aver perso le armi che le hanno garantito la vittoria nella Guerra Fredda e che lo contraddistinguono proprio dai sistemi autoritari: deterrenza, democrazia e, soprattutto, affermazione della libertà dell’individuo.
La cultura, il pluralismo, la diversità, vengono progressivamente cancellate ad ogni livello e latitudine. Da Shakespeare a Platone, da Thomas Jefferson a Indro Montanelli, la cultura è annichilita, estinta, limitata. Ormai, si parla esclusivamente di “cultura della cancellazione” e non di “cancellazione della cultura”, proprio per denotare l’esistenza di una corrente che impone come riferimenti sociali e politici la limitazione, la censura, l’illiberalità. Per ultimo, come riportato da Luigi Mascheroni su il Giornale, la scritta “Italo Balbo” è stata rimossa “dalla carlinga di uno degli Airbus della flotta di Stato, quelli usati da premier e ministri per i loro voli e per le missioni di pubblica utilità”.
Le parole vengono rovesciate orwellianamente e si trasformano in paradossi. La letteratura viene ridotta al presente e diventa “pagina bianca”, come affermava Mao Tse Tung. Riscrivere la grande cultura dei “dominatori”, riadattarla alla nostra epoca e giudicarla secondi i canoni morali della nostra attualità, è diventata la precondizione necessaria per la nascita della nuova cancellazione egemonica. In definitiva, il politicamente corretto è riuscito a modernizzare il freudiano principio “Wo Es war, soll Ich werden” (dove c’erano loro, dobbiamo diventare noi). Da una parte i vincenti della storia, dall’altra i perdenti; da una parte gli impuri, dall’altra i puri. Ed è ora che i primi facciano spazio ai secondi.
Per la cancel culture non devono più esistere punti fermi che non siano i propri; la storia deve essere interpretata oggettivamente, secondo i canoni decisi da qualche comitato “antidiscriminatorio” o direttamente da Stati autarchici o totalitari. La condivisione di spazi liberi politicamente opposti si traduce in un odio che ha come conseguenze uniche la squalifica e, talvolta, anche la violenza fisica nei confronti dell’avversario.
Ieri, Gramsci parlava di “forma di controllo”; oggi, il politically correct impone un nuovo controllo sotto la maschera della “cultura della cancellazione”. L’Occidente sta perdendo le sue radici, i suoi valori, le sue tradizioni millenarie. In nome della cultura, sacrifica la cultura stessa; in nome della finta tutela, sacrifica la libertà di parola.
Antonio Gurrado, sulle colonne de Il Foglio, ricordava come la guerra contro Putin “non si vince con i boicottaggi simbolici”; si può vincere solamente con l’esaltazione della democrazia contro l’autoritarismo, del tradizionalismo contro il radicalismo, del pluralismo contro l’unanimità. Insomma, si può trionfare solo se si ritorna ad essere Occidente.