La fine dell’Occidente: il pensiero di Carroll Quigley, precursore di Huntington

Ha anticipato di decenni temi oggi attuali: dallo scontro di civiltà al linguaggio politicamente corretto. Il pericolo di parole plasmabili a fini di propaganda politica

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Quando, il 16 luglio 1992, Bill Clinton accettò ufficialmente di essere il candidato democratico alle elezioni presidenziali di quell’anno, nel suo discorso citò quelli che erano stati i suoi modelli di riferimento: tra questi, vi era un suo professore di quando studiava alla Georgetown University, Carroll Quigley, il quale gli spiegò “che l’America è il più grande Paese nella storia del mondo perché il nostro popolo ha sempre creduto in due cose: che il futuro può essere migliore del presente e che ognuno di noi ha la responsabilità personale e morale di renderlo tale”.

Alla maggior parte delle persone il nome di Quigley potrebbe non dire nulla. Ma questo storico e politologo, nato a Boston nel 1910 e scomparso a Washington nel 1977, è stato d’ispirazione per molti altri intellettuali americani, anticipando in tempi non sospetti lo studio di temi oggi assai dibattuti: dallo scontro di civiltà al linguaggio politicamente corretto, dall’imperialismo russo al fenomeno delle teorie del complotto. Tuttavia, egli fu assai ostracizzato per le sue tesi quando era ancora in vita, mentre i suoi scritti furono divulgati soprattutto negli ambienti della destra americana.

A portare in Italia i suoi scritti ci ha pensato recentemente Spartaco Pupo, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università della Calabria, che ha curato e tradotto una raccolta di scritti di Quigley per la casa editrice Oaks, intitolata “La fine dell’Occidente. Trame segrete del mondo a due blocchi”.

La neolingua

Gli argomenti più trattati nel volume sono la nascita e lo sviluppo degli Stati moderni in Occidente, il sistema socioeconomico sovietico, e le relazioni estere americane. Secondo Quigley, da oltre un secolo in Occidente è diventato impossibile per chiunque elaborare un proprio pensiero in completa autonomia, poiché le ideologie politiche come il marxismo e l’individualismo hanno sostituito la religione, al punto tale che ogni ragionamento politico sarebbe filtrato attraverso preconcetti ideologici.

Un altro pericolo dal quale metteva in guardia era la nascita in Occidente di una sorta di “neolingua”, come veniva chiamato il linguaggio imposto dal regime in “1984” di George Orwell. Secondo Quigley, questa nuova lingua si sarebbe imposta nel caso in cui le parole avessero smesso di avere un significato immutabile e di riferirsi a qualcosa di oggettivo, ma fossero divenute plasmabili a fini di propaganda politica. Un tema assai attuale, nell’epoca della schwa e dei discorsi politicamente corretti.

Il contrasto con la Russia

Quigley può essere considerato in anticipo sui tempi anche nel prevedere il contrasto tra la Russia e l’Occidente, oggi più attuale che mai. Se dopo lo scioglimento dell’Urss molti analisti si illusero che i russi si sarebbero aperti alla democrazia e al libero mercato, qualche decennio prima lui evidenziò come l’autoritarismo e l’accentramento del potere in un solo uomo attraversino tutta la storia russa, e siano quindi caratteristiche strutturali di quel mondo.

Per le sue teorie sui rapporti tra nazioni, il professore della Georgetown ebbe molta influenza sul politologo Samuel P. Huntington, che lo cita a più riprese nel suo saggio di successo “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale”. Inoltre, l’idea che le ideologie abbiano preso il posto delle religioni è stata ripresa in anni recenti anche dal giornalista britannico Simon Heffer, già vicedirettore del settimanale conservatore The Spectator, nel suo libro “Una breve storia del potere”.

In conclusione, “La fine dell’Occidente” è un’opera che merita di essere letta e studiata; non solo per riscoprire un autore del passato, ma anche perché ci mette in guardia sulle sfide del presente e del futuro.

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