La Pechino-Parigi del 1907/2: pronti-via, “Itala” subito in testa

Seconda parte di una grande impresa tutta italiana (auto ed equipaggio) all’inizio del secolo scorso: la partenza da Pechino e il primo ostacolo brillantemente superato

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Il 10 giugno del 1907 era il giorno che il giornale parigino Le Matin, lanciando al mondo la sfida di compiere il tragitto tra Pechino e Parigi a bordo di un’automobile, aveva fissato per la partenza da quella che il principe Scipione Borghese definì come “la misteriosa capitale di un incomprensibile impero”.

Complicazioni diplomatiche

Fatte le presentazioni tra i cinque equipaggi che furono effettivamente in grado di partecipare al raid, uniche rimaste delle originarie 25 iscrittesi, in un clima di festosa competizione tra loro, le cinque auto italiane, francesi ed olandesi vennero allineate, senza un ordine preciso, sulla grande piazza della capitale dell’Impero Celeste, a Pechino. Le auto erano arrivate pochi giorni prima con un interminabile e non privo di imprevisti viaggio ferroviario. Ormai da giorni erano già partite verso la Mongolia le diverse carovane di muli e cammelli che avrebbero dovuto portare rifornimenti, olio e benzina ai partecipanti, lungo il primo e più disagevole tratto del percorso.

Per la verità, i giorni antecedenti la partenza furono convulsi e non privi di intoppi e complicazioni, prime fra tutte quelle di ordine diplomatico. Dopo la Rivolta dei Boxer dei primi anni del XX secolo, con la quale vi fu un massiccio sollevamento popolare contro le potenze straniere che, di fatto, governavano la Cina, da una parte l’Occidente guardava con sospetto, se non con un’aperta ostilità, i componenti del Wai-Wu-Pu, il Gran Consiglio dell’Impero Celeste, capeggiato proprio da quel Na-Tung che fu a capo della rivolta dei Boxer.

Dall’altro capo del mondo, i cinesi, che già avevano visto nel crescente sviluppo della rete ferroviaria costruita dagli occidentali una pericolosa ingerenza nelle millenarie tradizioni del popolo del dragone, non avevano, in un primo momento, nemmeno dato il benestare per quel raid, ritenuto un inutile disturbo alle loro abitudini di vita.

Gli stessi passaporti dei partecipanti, presentati per il visto alle legazioni a Pechino delle rispettive nazioni di appartenenza, erano stati trattenuti, poi rilasciati, poi nuovamente ritirati e misteriosamente scomparsi, per infine ricomparire, altrettanto misteriosamente, nella disponibilità dei componenti dei cinque equipaggi europei.

Se i cinesi avevano mal digerito il “Huo-Cho”, il “grande carro di fuoco” che viaggiava sui binari, la comparsa, inaspettata, del “Chi-Cho” , il “carro a combustibile” che avrebbe, addirittura, potuto muoversi senza la guida dei binari, aveva letteralmente gettato lo scompiglio nel Wai-Wu-Pu, che, soltanto alla fine del mese di maggio di quell’anno 1907, aveva ceduto alle pressioni diplomatiche internazionali affinchè il raid potesse svolgersi pacificamente.

Capolavoro di logistica

Vennero, dunque, rilasciati con l’apposizione della scritta “il Chi-Cho è cosa nuova in Cina, per cui il governo cinese non si assume alcuna responsabilità per il viaggio”. Per loro fortuna, un ruolo primario nell’organizzazione del tour fu quello della Banca Russo-Cinese, che, come diremmo oggi, “sponsorizzò” l’impresa, intravedendo un sicuro guadagno nello sviluppo delle comunicazioni via terra che ne sarebbe conseguito e buona parte delle tappe di sosta e rifornimento lungo il percorso vennero approntate e gestite coi mezzi economici di quella banca, di proprietà del governo russo.

L’equipaggio dell’Itala, come sappiamo composto dal principe Scipione Borghese, dal suo chauffeur e meccanico Ettore Guizzardi e dall’”ospite” giornalista, Luigi Barzini, aveva provveduto a stivare nel retro della grossa macchina italiana un buon numero di parti di ricambio, ai quali, comunque, non fecero ampio ricorso durante tutto il viaggio, oltre ad aver riempito a tappo il serbatoio da 200 litri della benzina, e rifornito quelli dell’olio motore e dell’acqua, in modo che il mezzo, almeno teoricamente, potesse compiere quasi 1000 km in autonomia assoluta, sulle proprie ruote.

Fu un capolavoro di quella che oggi chiamiamo “logistica”, sia dal punto di vista organizzativo che da quello pratico. Unico neo, se volessimo proprio cercarne uno, era la postazione di Barzini, il quale, non disponendo di un vero e proprio sedile, avrebbe dovuto “accomodarsi”, si fa per dire, tra i voluminosi colli legati con corde e cordini nel vano posteriore dell’Itala.

Sulla strada di Kalgan

Tutto era ormai pronto, e tra la folla dei dignitari e semplici curiosi accorsi per l’imperdibile spettacolo dei Chi-Cho, oltre al “nobile e venelabile Signol Po”, come i cinesi appellavano il principe Borghese, alla sua consorte, principessa Anna, al fratello di questi, Don Livio Borghese, allora “Chargè d’Affaires” presso la Legazione italiana a Pechino, il possente Ettore si aggirava, nervoso ed impaziente, tutt’attorno alla macchina, controllandone, per la millesima volta, ogni minimo particolare meccanico.

Ettore guardava l’Itala come fosse la sua creatura; ne aveva smontato e rimontato ogni parte del motore, delle sospensioni, dei comandi di guida, per avere la certezza di saperci mettere le mani in caso di bisogno. La presenza dei famigliari del principe, d’altro canto, non era affatto casuale o meramente celebrativa.

Nei giorni precedenti la partenza, compiendo un’impresa nell’impresa, anche se pressoché sconosciuta, il principe, la consorte ed il fratello di questi avevano percorso oltre 500 chilometri a cavallo, dotati di strumenti di misurazione (bussole, goniometri e semplici aste graduate) sulla strada di Kalgan, prima tappa importante del viaggio, per misurare attentamente ogni stretto passaggio su quel tratturo percorso solitamente dalle carovane dei cammelli, per scegliere quali deviazioni dal percorso tracciato si sarebbero rese necessarie a farlo con la macchina, senza rimanere incastrati tra le aspre rocce che lo costellavano, studiando attentamente quali soluzioni adottare per attraversare il corso di serpeggianti torrenti in secca, che in pochi minuti di pioggia estiva improvvisa avrebbero potuto trasformarsi in fiumi in piena.

All’epoca, la nobiltà raramente era rappresentata da fannulloni o buoni a nulla, e non di rado si sporcava le mani senza farsi tanti problemi e chi poteva permettersi il lusso di non lavorare per campare, perlomeno studiava.

Da parte del governo italiano, il presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti, aveva da subito dato ampio appoggio all’impresa di Borghese, mettendogli a disposizione l’intero contingente di Carabinieri di stanza presso la Legazione di Pechino ed inviando, con il compito di fornire supporto logistico, una squadra di marinai della Regia Marina lungo la prima parte del percorso.

La partenza

Anche questi agili ed entusiasti militari facevano parte della piccola folla radunatasi attorno alle cinque auto partenti, con un bel daffare a tenere indietro i curiosi più intraprendenti che volevano forse provare a salire sopra al Chi-Cho per vedere se, magari, ne sarebbero stati sbalzati via, come per una sgroppata di un cavallo bizzoso.

Alle sette e mezza in punto, tra un frastuono incredibile di motori ed una bella cortina di fumo nerastro dagli scappamenti, le auto si mettono in marcia, scortate da militari e funzionari a cavallo, affiancando immobili portantine con le tendine semi-chiuse che celavano le sembianze di qualche mandarino locale, in un susseguirsi di incitamenti della folla inneggiante al buon viaggio, mentre moltissimi riscio’ trainati da giovani di gran corsa li seguono e fanno fatica a tenere il passo delle macchine infernali che sollevano un gran polverone al loro passaggio. Pian piano, l’andatura delle auto, con la Itala in testa, si fa più veloce e soltanto i cavalli riescono a tenere il passo. Il raid Pechino-Parigi è iniziato.

Sulla macchina italiana, guidata da Borghese, sono in cinque: a fianco del guidatore, sua moglie, la principessa Anna, mentre nello spazio posteriore, Don Livio, Ettore e Barzini fanno fatica a tenersi aggrappati alle corde che trattengono il carico, ma il clima è di autentica euforia e già si respira l’aria della grande impresa che comincia.

Verso la periferia di Pechino, l’andatura si fa ancora più sostenuta e la folla, trattenuta ordinatamente entro cordoni di polizia cinese, guarda con rassegnazione, più che con stupore, quelle strane creature meccaniche che sembrano animate di vita propria, senza alcun contributo dell’uomo. Scrive Barzini: “Il cinese è così: egli ha la tranquilla filosofia dell’inconsapevole, possiede la serena pace dell’ignaro ed ha trovato in ciò il vero segreto della felicità” .

In aperta campagna

Usciti dal sistema di muraglie e bastioni a protezione della città imperiale, le auto percorrono adesso le vaste campagne cinesi, piene di frutteti e campi di riso a perdita d’occhio, in un alternarsi di boschetti, ruscelli che costeggiano la bianca strada sassosa, ai bordi della quale si distinguono, di tanto in tanto cippi funerari e bassi monumenti in pietra con iscrizioni incomprensibili a tinte vivaci.

Già le due De Dion-Bouton e la Spyker si sono fermate, forse per qualche controllo meccanico, e l’Itala procede ora da sola verso il cuore della Cina, mentre del triciclo Contal non v’è già più traccia. Si rendono necessarie delle soste per rifornire di acqua fresca il radiatore della macchina, surriscaldato dalla bassa velocità e dallo sforzo di superare sempre più numerosi dossi ed avvallamenti della strada, ed a ciò collaborano volentieri i contadini cinesi, i coolies, che indicano ai nostri la direzione verso il prossimo pozzo lungo il percorso o nelle sue vicinanze. Lo fanno nel linguaggio universale a gesti delle cose primarie, quelle di cui non si può fare a meno: il cibo, l’acqua, il bisogno di dormire.

Osservando la semplice cortesia dei coolies, a Barzini sovvenne quanto accadde il giorno prima, quando alcuni di loro, inviati dal Wai-Wu-Pu a sperimentare in loco la tecnica da utilizzare per aiutare la macchina a superare passaggi particolarmente aspri, si presentarono con lunghe aste di legno flessibile, che fecero passare trasversalmente al telaio dell’Itala da parte a parte, per poi appoggiarsi le stanghe sulle spalle e sollevare l’auto con uno sforzo immane, sia pure per pochi secondi.

In quell’occasione, Ettore Guizzardi, prontamente, offrì la propria muscolosa spalla, al che i cinesi gli chiesero, con la cortese fermezza di un cenno negativo del capo e del palmo della mano aperto, di tenersi a distanza, mentre loro davano l’anima per provare a sollevare le circa due tonnellate del mezzo a pieno carico, sollevandola con le aste anche soltanto di pochi centimetri. Vedendo il povero Ettore soffrire a due metri di distanza dai forsennati, mentre la “sua” Itala veniva tutta percorsa dalle aste dei coolies, il principe fece un cenno con la testa a Barzini, indicandogli Guizzardi e, accostatosi all’orecchio del giornalista, gli sussurrò, ridendo: “Guardi Ettore: sembra che, novelli Longino, gli stiano trafiggendo il costato”.

Il grande ponte di marmo

Giunti a ridosso del fiume Tsing-ho la prima vera, apparentemente insormontabile difficoltà: il maestoso ponte monumentale in marmo che lo attraversa sembra, ed è, l’unica via per proseguire il viaggio: nessun guado, nessun altro ponte più comodo da percorrere. Constatato che, per proseguire, bisogna attraversarlo, nonostante la sua larghezza pressappoco pari a quella dell’auto, con la ulteriore complicazione di numerose tavole in marmo ammalorate e sconnesse, si tratta ora, innanzitutto, di salire per le scoscese rampe di accesso al ponte, che il tempo ha reso più simili a gradini alti trenta centimetri.

Soltanto dopo molti tentativi sotto una pioggia battente, con Ettore alla guida, in piedi, e gli altri, chi a spingere, chi a indicare un punto esatto ove le ruote chiodate dell’Itala possano fare presa su un fazzoletto della pavimentazione marmorea che non sia troppo viscida, ce la fanno. È il primo trionfo della macchina in un’impresa che pareva ad essa negata. Bagnati fradici e spossati, ai componenti dell’equipaggio, principessa compresa, con l’automobile fumante sotto il diluvio per il surriscaldamento del motore dopo oltre un’ora di sforzi, fermarsi sotto la pioggia scrosciante sembrò già un riposante traguardo raggiunto. Se ce l’avevano fatta a percorrere quel ponte, niente li avrebbe più fermati fino a Parigi.

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