La Pechino-Parigi del 1907/6: dalla Siberia all’arrivo trionfale dell’Itala

L’auto italiana arriva prima al traguardo dopo 16 mila chilometri, concludendo così una delle più straordinarie imprese del XX Secolo

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Barzini-Borghese_Berlino

Nel peregrinare tra i vari uffici telegrafici, tutti funzionanti, ai quali affidare i messaggi sui progressi del raid e lasciandosi alle spalle le tre città di Urga, arriva una conferma definitiva a quello che un incerto confine geografico già lasciava presupporre: tre cosacchi a cavallo, con le loro inconfondibili uniformi, si avvicinano all’Itala e confermano: sì, quella è già Siberia!

Il comitato russo

Giunti all’albergo della Urga slava, un funzionario del consolato russo, con grande affabilità si avvicina al principe Borghese:

“Avvertirò subito il comitato – ci diceva il nostro ospite conducendoci alle camere.

– Il comitato?

– Sì, il comitato russo per il ricevimento della Pechino-Parigi. Lo avvertirò del vostro arrivo. Doveva trovarsi qui a ricevervi, ma non immaginavamo giungeste prima di sera. Ci hanno telegrafato da Tuerin che un’automobile era partita stamane alle sei e mezza. Sono più di 250 chilometri! Scusateci, se il ricevimento è mancato.

Dunque c’era un comitato. Eravamo in piena civiltà occidentale”.

Il giorno seguente, giunge la notizia che le due De Dion Bouton e lo Spyker sono giunti a Tuerin. Il raid prosegue, stavolta senza l’utilissima guida costituita dai pali telegrafici. Si fa fatica a seguire il percorso designato. Ma non è la sola difficoltà: altro fango, che non ricordavano dai primi giorni di viaggio, blocca nuovamente l’automobile e, stavolta, non ci sono i coolies cinesi pronti a tirarla con le corde e sospingerla verso la terra più asciutta.

Soltanto il fortuito incontro con un carro trainato da buoi e carico di travi in legno permetterà, dopo ore di estenuante fatica, di rimettere l’Itala in carreggiata e ripartire. Finalmente, un terreno dolcemente collinare, costellato di betulle bianchissime, sembra presagire il ritorno a condizioni più familiari ai tre italiani.

Giù dal dirupo

Ma un’altra difficoltà li attendeva dall’altro lato della collina, ove uno scosceso declivio sassoso mise a dura prova le capacità di guida di Ettore e lo chassis della macchina quando, all’improvviso, il pesante mezzo, mosso come da una volontà autonoma, prese a correre giù dal dirupo, senza rispondere ai freni e senza che i tre occupanti, due dei quali scesi a terra, potessero trattenerla in alcun modo, per poi fermarsi docilmente, dopo molti sobbalzi e salti prodigiosi, soltanto alla fine del pendio.

L’avevano scampata bella, rischiando di perdere l’automobile, se si fosse cappottata. Nessun danno evidente. Soltanto molta paura, ma non era finita.

Sabbie mobili e predoni

Tra le straordinarie difficoltà incontrate, merita un cenno particolare quando, verso Khyatka la nostra automobile, quasi senza che i suoi occupanti se n’avvedessero, si trovò impantanata su un morbido mantello muschioso che altro non era che la parte superiore di una vasta depressione fangosa simile alle sabbie mobili.

Impossibile cavarsene con il solo motore ed altrettanto impossibile sfuggire a quella morsa che, lentamente stava facendo sprofondare il mezzo in un abisso vischioso senza scampo. Troppo distanti, ormai, da Urga, ove si sarebbe potuto prendere dei cavalli o dei cammelli per trascinarla fuori, i nostri, postisi ad una distanza di sicurezza, o a quella che sembrava tale, decidono di fermarsi e preparare un tè, in attesa che qualcosa cambi, impotenti e quasi rassegnati a vedere scomparire l’Itala da un momento all’altro.

Ma, ancora una volta l’impossibile accade ed una carovana di cammelli compare all’orizzonte nella loro direzione. Pagati i 50 rubli richiesti dai viandanti (o forse predoni), i nostri non ebbero alternativa. O la va o la spacca. E non spaccò. Dopo molte fatiche, la macchina fu di nuovo in grado di proseguire. Costeggiando fiumi dal tracciato nervoso ed attraversando zone semi-paludose, accampandosi alla meglio presso qualche sperduta sorgente, la notte si passa con la pistola Mauser alla mano. Non si sa mai.

La trans-siberiana, il grande freddo

Qui, seppure a malincuore, chi scrive è costretto a fare un deciso salto in avanti, sorvolando altre avventure ed altri imprevisti dal sapore quasi fantastico, perché manca la carta necessaria a descrivere come meriterebbe la parte finale del viaggio verso la Russia, i Paesi Baltici, la Germania e la Francia.

Lasceremo a chi vorrà leggere il bellissimo libro di Luigi Barzini la scoperta di certi posti da favola, il racconto di tantissime storie vissute ed il gusto ansioso di domandarsi a quante altre prove la spedizione sarebbe stata sottoposta. Basti sapere che dovettero addirittura costruire zattere con materiali di fortuna per trasportare l’Itala e guadare certi fiumi, così come fu necessario recuperare con immensa fatica l’auto da ponti crollati sotto il suo peso ed approfittare dell’aiuto di moltissime persone che s’offrirono per rendere possibile la prosecuzione della marcia, la maggior parte delle volte dietro pagamento di una somma di danaro.

Si costeggia la linea ferroviaria trans-siberiana, a tratti correndo veloci, altre volte a passo d’uomo. A volte si attendono i rifornimenti di benzina richiesti nelle tappe precedenti ed approfittando dell’ospitalità dei mujiki nelle gelide terre del Lago Baykal. Dopo tanto feroce calore, il gelo, altrettanto insopportabile. Tutto ciò in un continuo smontare e rimontare quelle parti dell’auto che l’appesantivano in certi passaggi difficili nella grande e lussureggiante taiga siberiana.

Si hanno finalmente notizie delle altre due automobili francesi e dell’olandese Spyker: seguono ad un giorno di distanza. Scampati miracolosamente all’ennesimo crollo di un ponte, stavolta mentre si trovavano a bordo dell’Itala, la scommessa col destino fece loro correre il rischio concreto di perdere la vita. Ma qualche santo protegge gli ardimentosi e, riparati alla meglio i danni, si proseguì ancora verso Parigi.

Fu strabiliante, presso Omsk, vedere un fabbricante di ruote per carri, costruire in sole sette ore una perfetta ruota di scorta per l’Itala, copia perfettamente funzionate dell’originale. La strada era ancora tanta, ma ormai si viaggiava nella civiltà.

Abbiamo passato il confine geografico dell’Europa nella mattina del 20 luglio, alle ore 5,17. Vicino alla strada, in una piccola radura in mezzo alla foresta, al valico d’una delle più alte vette degli Urali, si erge un obelisco di marmo, sulla cui fronte orientale è incisa la parola “Asia” e sull’occidentale la parola “Europa”.

Cavalcata verso Parigi

Il resto fu, in qualche modo, una cavalcata trionfale verso Parigi, con la macchina italiana sempre più piena di firme e date scritte ovunque da ardenti estimatori dell’impresa e dovendo difendere con le unghie e coi denti persino la bandiera italiana issata a poppa, poiché molti sostenitori volevano strapparne un lembo e serbarlo per ricordo.

La vicinanza di Parigi ci sorprende, ci stordisce, ci commuove, anche per la rapidità fantastica con la quale Parigi giunse davanti a noi. Negli ultimi giorni non avevamo avuto il tempo di abituarci all’idea dell’arrivo. L’estreme provincie russe, la Germania, il Belgio, la Francia passarono come un sogno. C’erano voluti dodici giorni a percorrere i primi mille chilometri: volammo gli ultimi mille in due giorni e mezzo. Ma le ultime ore ci sembrano eterne. Ore di gioia, ma anche ore di angoscia. Un’angoscia sottile, vaga, inesprimibile, che ci rende silenziosi e ci dà tutte le apparenze esterne della tristezza.

Alle quattro e un quarto del 10 agosto 1907 l’equipaggio italiano a bordo dell’Itala, dopo un tragitto di oltre 16.000 chilometri durato 60 giorni, entra trionfalmente a Parigi, accolto da una folla di curiosi, giornalisti e fotografi. Godard, a bordo della Spyker, arriverà con venti giorni di ritardo, esattamente il 30 agosto, mentre le due De Dion Bouton accumularono un tale ritardo da nemmeno conoscersi la data esatta del loro arrivo. Il povero triciclo Contal di Auguste Pons, da parte sua, rimase insabbiato nel  deserto del Gobi e l’equipaggio si salvò da morte sicura grazie al soccorso di un gruppo di nomadi mongoli.

Si conclude così una delle più straordinarie imprese del XX secolo, nel trionfo e nello sventolio di bandiere che non poterono non ricordare ai tre italiani lo sventolare incessante delle bandierine colorate del culto buddista alla sommità dei cippi votivi nello sterminato altipiano della Mongolia, mosse da un forte vento secco di cui portavano, oltre che per il sole, ancora i segni sulla pelle. All’umile recensore e chiosatore di questa grande storia italiana, non resta che ricordare i nomi degli altrettanto grandi italiani che ne furono protagonisti. Si chiamavano Scipione Borghese, Ettore Guizzardi, Luigi Barzini.

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