Cultura

La storia viaggia in treno/2: l’assurda disfatta del treno armato di Albenga

Una tragedia emblematica della partecipazione italiana nella Seconda Guerra Mondiale: inadeguatezza di mezzi, approssimazione dei comandi, eroismo dei singoli

treno armato

Dodici giorni dopo la fatale dichiarazione di guerra all’Inghilterra ed alla Francia da parte di un Benito Mussolini che si dichiarava certo dell’ineluttabile vittoria per terra, cielo e mare, ossia il giorno 22 giugno dell’anno 1940, il quarantacinquenne tenente di vascello Giovanni Ingrao trovava la morte sulla linea ferroviaria che percorre la bella riviera del Ponente ligure, nei pressi di Albenga.

Giovanni Ingrao, un palermitano d’intelligenza vivissima e caratterizzato da una passione per la geofisica e le scienze della Terra, aveva dovuto interrompere gli studi universitari a causa della Prima Guerra Mondiale, quando si arruolò in Marina col grado di guardiamarina. Congedatosi come sottotenente di vascello nel 1919, si laureò in ingegneria industriale all’Università di Milano e venne richiamato in servizio per ben due volte, dal 1935 al 1937 ed ancora nel 1939, ove venne apprezzato per le sue eccezionali qualità di ufficiale capace e buon comandante. Dalle navi militari ai treni il passo è tutt’altro che scontato e naturale, ma bisogna fare una premessa.

I treni armati italiani

Già nel corso della Guerra Franco-Prussiana (1870–1871) ed ancora nella Prima Guerra Mondiale, i tedeschi avevano utilizzato particolari treni, pesantemente blindati ed armati di cannoni di grosso calibro e mitragliatrici pesanti, con il compito di scorta a convogli di particolare importanza e per scopi difensivi nelle più sperdute regioni ove non potessero essere installate postazioni di artiglieria pesante.

In tale ottica, il treno armato si era dimostrato uno strumento bellico efficace e di relativamente rapido impiego. Su tali basi, intorno al 1939, il nostro Stato Maggiore, nella frenetica corsa ad armarsi in occasione dell’ormai inevitabile secondo conflitto mondiale, predispose ben 14 treni corazzati, di cui quattro dispiegati in Liguria ed i restanti dieci in Sicilia, tutti composti da una locomotiva in testa ed una in coda e da un numero variabile di carrozze speciali armate di cannoni e mitragliatrici.

Sennonché, come capitò per tutto il corso della Seconda Guerra Mondiale, anche a causa di una evidente sudditanza psicologica nei confronti della Germania e di una certa sopravvalutazione della qualità dei materiali bellici impiegati (come accadde per i carri armati leggeri italiani CV33 e CV35 soprannominati dagli stessi carristi “scatolette di sardine”) si cercò di “fare come i tedeschi” senza esserlo minimamente e senza averne i mezzi e le infrastrutture.

Questo tipo di errore strategico ebbe, come sappiamo, un ruolo determinante sulle sorti delle nostre armate, al netto di atti di vero ed ampiamente riconosciuto eroismo che contraddistinsero moltissimi nostri reparti. Per usare un termine d’oggi, mancava la visione d’insieme.

Impiego sbagliato

In sostanza, i nostri treni armati erano armati con cannoni di calibro inadeguato e vennero dotati di corazzatura insufficiente ma, soprattutto, vennero impiegati nel modo sbagliato e nei luoghi sbagliati. Per quanto riguarda i treni armati liguri, venivano posizionati sotto una galleria fino al momento del loro impiego, dalla quale ne uscivano velocemente per piazzarsi e dirigere il tiro verso le postazioni fisse e navali, in quel primo anno di guerra francesi, tornando poi al coperto della stessa galleria o entrando in quella successiva.

Era un’operazione bellica di tipo “mordi e fuggi” che spesse volte si dimostrò tecnicamente troppo complessa e, comunque, con troppa esposizione al fuoco nemico di risposta durante le manovre.

Per i treni armati liguri, poi, v’era un problema aggiuntivo: il nemico poteva facilmente individuare la posizione del treno armato che aveva aperto il fuco contro le loro postazioni, poiché la linea ferrata costiera era solo quella e perlopiù a binario unico, persino indicata su qualsiasi cartina, anche stradale, il che riduceva il tempo effettivo di tiro a pochi minuti, prima di dover fare precipitoso rientro in galleria all’arrivo dei primi colpi di risposta. Si aggiunga, infine, il calibro ben superiore dei pezzi terrestri e navali francesi, che poteva recare danni micidiali ai nostri piuttosto leggeri treni armati.

La tragedia di Albenga

La mattina del 24 giugno 1940, al tenente Giovanni Ingrao, al comando del treno armato 120/2/S di stanza ad Albenga, venne ordinato di portarsi fuori della Galleria Mortola, ove avrebbe dovuto aprire il fuoco contro le postazioni francesi di Cap Martin, a protezione della nostra fanteria che marciava verso Mentone.

In trenta minuti il treno armato riuscì a sparare oltre 200 colpi senza subire danni particolarmente gravi, ma, essendo stato localizzato dagli artiglieri nemici, dovette rifugiarsi subito sotto la stessa galleria. Era del tutto prevedibile che una successiva uscita dalla Mortola avrebbe permesso ai francesi di puntare con precisione i loro cannoni verso quel punto esatto ma, paradossalmente, esattamente quello fu l’ordine ricevuto da Ingrao, impartitogli dal generale di corpo d’armata.

A quel punto, l’ufficiale diede ordine di sganciare la locomotiva di testa, che riparò sotto altro binario, in modo da offrire al tiro nemico un vagone armato e non la stessa locomotiva, alla prossima uscita dalla galleria. Verso le 14, allorché il primo carro del treno armato spuntò dal tunnel, il tiro francese si fece furibondo e assai preciso.

Uno dei pezzi da 120mm, il numero quattro, ricevette una salva da 150mm da una delle torrette corazzate del Monte Agel, una delle tante della Linea Maginot, e quel colpo fece ruotare di 90 gradi il cannone verso la vicina scarpata rocciosa, contro la quale l’intero treno rimase incastrato.

Seguirono fasi di concitate manovre allo stremo delle forze per cercare di disincagliare il convoglio, mentre la locomotiva di coda, rimasta protetta sotto la galleria, slittava paurosamente a tutto vapore, rischiando di deragliare, tutto ciò sotto una tempesta di colpi d’artiglieria che provenivano anche dalle torrette blindate di Cap Martin, fino a quando un colpo centrò in pieno la Santabarbara del treno armato, che esplose, uccidendo sul colpo, oltre al comandante Ingrao, altri 8 marinai, e causando 14 feriti. Nessuno sa se l’aver sganciato la locomotiva di testa, abbia o meno contribuito a causare la tragedia, poiché la sola locomotiva in coda non riuscì a riportare il convoglio indietro. Ma così andarono le cose.

Disciplina ed eroismo

Al tenente di vascello Giovanni Ingrao venne concessa la Medaglia d’oro al valor militare alla memoria, per il suo gesto eroico ed altre decorazioni furono prontamente assegnate ad altri componenti l’equipaggio di quel disgraziato treno armato.

Ma il punto è un altro. Era indispensabile dare ordine di nuovamente uscire dalla galleria e riprendere a far fuoco, in quelle esatte circostanze? Probabilmente no, anzi, certamente no. Ingrao ed i suoi uomini hanno eseguito ordini precisi, come ogni militare è tenuto a fare. Che gli alti comandi si rendessero o meno conto dell’inadeguatezza di quei treni armati, che, peraltro, non riportarono mai successi militari eclatanti per tutto il corso della guerra, non lo sa nessuno.

Furono fatti, per quanto riguarda le nostre forze armate, di assoluto secondo piano, tra i tanti più noti della Seconda Guerra Mondiale e, proprio per tal motivo, meritevoli di essere ricordati con rispetto e riconoscenza per la disciplina e l’eroismo dimostrato da quei militari italiani.

Una delle tante assurdità

Un treno è fatto per correre sulle rotaie che lo portino alla destinazione del suo viaggio e non è così intuitivo vederlo trasformato in una postazione d’artiglieria mobile. Mobile ma necessariamente vincolata ai binari, quindi facile bersaglio per il tiro avversario. Come per tutti i disastri bellici, cause e concause interagiscono in modo perverso e ciò che conta sono soltanto le perdite umane.

Con il senno del poi, appare oggi davvero incomprensibile, se non peggio, quell’ordine di riprendere la battaglia nonostante il treno armato fosse stato esattamente localizzato e colpito. Fu una delle tante assurdità di guerra e non certamente né prima né ultima tra le tante. Chissà la rabbia di quelle due locomotive: l’una esonerata dal suo compito, sapendo che avrebbe lasciato la sua compagna da sola e l’altra per non avercela fatta a riportare il convoglio in salvo.

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