Cultura

L’alba e il tramonto dell’ideologia woke passano da Hollywood

Il flop dell’operazione “Biancaneve”, la destrutturazione woke non tira più. E anche i Democratici negli Usa cominciano a prendere le distanze dagli eccessi woke

Disney cultura woke

Non più tardi del 4 marzo Donald Trump, davanti al Congresso a camere riunite, per la prima volta da quando è stato eletto al secondo mandato, ringhiò la sua posizione sulla cosiddetta “cultura woke”:

Ho messo fine alla tirannia delle cosiddette “politiche di diversità, equità e inclusione” in tutto il governo federale e nel settore privato delle forze armate. Il nostro Paese sarà woke no longer.

Parole accolte con prevedibili applausi dei deputati e senatori repubblicani e dei membri del governo. L’insofferenza di Trump per il wokisme, particolarmente attento al politically correct e all’uso di comportamenti inclusivi e non discriminatori – già nota da tempo – e rinfocolata dalla liaison con Musk ha avuto una successiva, piccola, ma significativa evoluzione nelle politiche dell’esecutivo.

Ecco che il presidente, il 28 marzo, emette l’ordine esecutivo Restoring Truth and Sanity to American History (Ripristinare la verità e la sanità mentale nella storia americana), prendendo di mira qualsiasi ideologia “anti-americana”, ed alcune – non poche volte discutibili – scelte dello Smithsonian Institution.

Non è dato sapere se Trump creda veramente di aver messo il bavaglio a questa cultura “dell’attenzione” e di aver impresso al Paese una nuova rotta. Certamente il presidente ha ereditato un Paese profondamente diviso nei suoi valori fondamentali e questi – proprio perché l’America non può essere inquadrabile nelle logiche “storiche” europee di ethnos, lingua, religione, ecc. –  sono esiziali per l’esistenza stessa degli Stati Uniti.

Ripensamenti tra i Democratici

Il duro approccio dell’amministrazione Trump trova singolare eco anche presso la sinistra del Partito democratico. Come ricordato da Federico Rampini, Bernie Sanders, l’unico socialista dichiarato che siede nel Senato degli Stati Uniti, ha stigmatizzato la deriva identitaria delle élite progressiste:

Sanders ha sempre sostenuto che a dividere gli americani sono le diseguaglianze socio-economiche, che un operaio bianco va difeso tanto quanto un nero, che i diritti dei lavoratori non vanno sottoposti a priorità etniche. Il suo rifiuto della moda “woke” è rimasto inascoltato fino a ieri. Cioè fino all’elezione di Donald Trump, uno shock che sta dando più visibilità ad alcuni ripensamenti che erano già in atto a sinistra.

Da posizione più moderata anche Gavin Newsom, potente governatore della California, ha, significativamente, iniziato a prendere le distanze da certi eccessi dell’ideologia woke. Non deve essere letto come bizzarria, ma come una precisa consequenzialità il fatto che la prima rivolta “etnica” di massa contro la woke culture sia avvenuta nella Chinatown di San Francisco.

Le famiglie degli allievi cinesi sono riuscite a cacciare i capi della soprintendenza scolastica, che avevano eliminato esami selettivi di matematica per favorire gli scolari neri (e così danneggiare gli asiatici). Chi conosce le radici dell’immigrazione cinese ed il mai sopito senso di superiorità storica e culturale nei confronti degli afro-americani non deve stupirsi.

La nuova Biancaneve

In tutto questo ribollire di conflittualità ecco che la Disney, dopo il primo annuncio del progetto nel 2016, consegna alle sale cinematografiche il remake del film d’animazione “Biancaneve ed i sette nani” del 1937. Opera ardita trasformare un film d’animazione in pellicola con attori in carne ed ossa. Già il capolavoro originale di Disney impose una riscrittura di alcuni parti della versione del  1857 della storia dei fratelli Grimm.

La versione Disney presenta differenze sostanziali rispetto alla fiaba originale dei fratelli Grimm da cui è tratta, e la stessa fiaba originale ha subito nel tempo dei cambiamenti nella direzione di una progressiva edulcorazione. Per esempio, il famoso bacio del principe che risveglia da morte apparente Biancaneve viene introdotto con il film d’animazione della Disney ma non è presente nella fiaba originale.

Il significato simbolico della storia dei fratelli Grimm acquista pregnanza se si tiene conto della trama originale, in cui è la madre a essere invidiosa della figlia e a volerne insistentemente la morte. Per Bruno Bettelheim il tema centrale di Biancaneve è il rapporto madre-figlia con le sue ombre: dietro la madre, l’origine della vita, può nascondersi un’ombra psichica mostruosa.

Il film del 1937 pare avere una morale assolutamente conservatrice, in piena linea con l’Hays Code e con la visione etica e politica del finanziatore Amedeo Peter Giannini (sì, quello della Banca d’America e d’Italia). Il messaggio del film sembra essere che la felicità per gli individui consiste nel sapere qual è il proprio posto nella vita e nella società e nel compiere diligentemente il proprio lavoro.

La Disney per il remake ha sovvertito tutte le precedenti narrazioni. Innanzitutto, rispetto alla pellicola del 1937, l’ottica della storia dalla ricerca e dal trionfo del “vero amore”, si sposta verso la ricerca di un proprio “io”. Una ricerca e una centralità del carattere della protagonista che modifica la prospettiva della narrazione.

Biancaneve non può, dunque, essere salvata solo dal bacio del principe – figura eponima dell’establishment legittimo – come accadeva nell’opera animata (divenuto, nella narrazione del 2025, un ladro, sovvertitore dell’ordine sociale), ma si scopre leader dopo un discorso finale attorno all’empowering femminile di cui il personaggio si fa portatore.

Dal bacio al casting

Già durante le fasi di pre-lavorazione la Disney ha dovuto affrontare delle “minacce” allo story-telling tradizionale di Biancaneve. Uno di questi risale al 2021, quando a Disneyland riaprì l’attrazione Snow White’s Enchanted Wish, in cui si vede il bacio tra il principe e Biancaneve. Stavolta, a protestare non furono gli hater del film, ma l’opposto: quelli che ritenevano inaccettabile che, nel 2024, in un parco per bambini, si mostrasse un bacio non consensuale.

È facile immaginare il dibattito acceso e inquinato che ne è seguito, contribuendo a trasformare Biancaneve nel simbolo dell’opera contestata per antonomasia, il terreno su cui misurare i parametri di inclusività, tolleranza e cautela. Gettandosi a capofitto nelle insidiose acque del politicamente corretto ecco che la Disney ha destrutturato anche il casting. La protagonista, fedele alla narrazione del riscatto delle donne e delle minoranze, diventa una colombiana.

L’antagonista resta bianca ma, ben più avvenente di Biancaneve che – per dirla con lo specchio magico – è più bella perché “buona e giusta” (si vabbè; come dire “è un tipo” di una donna di non particolare bellezza). Per non essere accusata di razzismo verso persone di bassa statura, ecco che per rappresentare i “nani” la produzione non ha utilizzato attori, ma computer grafica.

Un proverbio dice che a cercare di rendere la matita appuntita si rischia di spezzarla; questo è successo. Una organizzazione di attori americani affetti da nanismo ha accusato la Disney di razzismo e di privarli di un qualificante posto di lavoro.

Il Fatto Quotidiano ha riportato le dichiarazioni del culturista e artista Choon Tan, 31 anni, affetto da nanismo, dichiarando che il ricorso alla CGI per i sette nani nel film è “assolutamente assurdo e discriminatorio”: Penso che la Disney si stia sforzando troppo di essere politicamente corretta, ma così facendo sta danneggiando le nostre carriere e opportunità”. Del resto, afferma Tan, “non c’è davvero nulla di sbagliato nel dare il ruolo di nano a qualcuno affetto da nanismo in qualsiasi occasione”.

Talmente banale da essere ovvio. Poi – ad abundantiamRachel Zegler (Biancaneve) di origini colombiane da parte di madre, condividendo sui social il trailer del film ha concluso con un “Free Palestine”. Tutto, ovviamente, legittimo; senza però pensare che la Strega era Gal Gadot, attrice israeliana figlia di sabra di origine aschenazita e già istruttrice di combattimento per l’IDF. La Disney, onde evitare spiacevoli “siparietti”, ha modificato tutta la campagna di comunicazione.

Flop al botteghino

I fatti parlano chiaro: gli incassi erano previsti tra i 63 ed i 70 milioni di dollari nel fine settimana di apertura, a fronte di oltre 270 milioni di spese produzione. In quel fine settimana il film ha incassato circa 50 milioni. Presto per dire che questa pellicola sia un flop assoluto, certo che è molto sotto gli standard Disney.

Non si deve, però, pensare che dietro vi siano solo narrazioni ideali. Il pink-washing di questa nuova Biancaneve altro non è che un mezzo per promuovere un “prodotto” attraverso un apparente atteggiamento di apertura nei confronti dell’emancipazione sia femminile, sia etnica. Un matrimonio di interessi tra i diritti civili e Mammona.

È noto che a Hollywood esistano associazioni di categoria che “impongono” alle produzioni di assumere attori di ogni possibile etnia, in barba alla storia trattata, ma nel rispetto di un bigotto “Manuale Cencelli” d’oltreoceano. Si provi a ricordare la miniserie tv del 2021 dove Anna Bolena venne interpretata da Jodie Turner-Smith, britannica sì, ma di origine giamaicana.

Nel 1970 la BBC scelse il delicato e somigliantissimo volto di Dorothy Tutin per rivestire il ruolo della sfortunata madre di Elisabetta ne “Le sei mogli di Enrico VIII”. Questa stessa BBC in una più recente serie chiamata “La caduta di Troia” ha fatto – ahimè – vestire i panni di Achille a David Gyasi, un attore inglese di origine ghanese.

L’operazione “Biancaneve” non andava fatta. Punto! Se si ritiene la storia ed i personaggi non più attuali ben venga l’oblio a favore di nuove narrazioni e di nuove storie. I classici restano tali. Ma qua si parla di sensibilità e di cultura ed il woke, con la cultura, non ha nulla a che spartire.