È interessante riportare che cosa afferma Isaiah Berlin a proposito delle concezioni – come il marxismo – le quali hanno in comune l’idea che esistano soluzioni definitive ai problemi dell’umanità, che sia possibile scoprirle e, con una dose sufficiente di altruismo, realizzarle sulla terra.
I filosofi delle “soluzioni finali”
Egli ci racconta che, in gioventù, aveva molto meditato sulle opere di alcuni scrittori russi, e in primo luogo su “Guerra e pace” di Tolstoj. Iscrittosi in seguito all’Università di Oxford, aveva poi ritrovato queste stesse idee nelle opere di molti filosofi, anche se v’erano notevoli differenze sia sul modo in cui tali soluzioni potevano essere scoperte, sia sui mezzi che occorreva porre in atto per realizzarle. Platone, ad esempio, pensava che una élite di saggi dovesse essere investita del potere di governare gli altri – i meno dotati – attenendosi a schemi dettati dalle giuste soluzioni dei problemi.
I razionalisti del ’600, dal canto loro, ritenevano che le risposte fossero rintracciabili grazie a una speciale applicazione del “lume della ragione” di cui tutti gli uomini sarebbero in quanto tali dotati. Gli empiristi del ’700 sostennero invece che i nuovi metodi scoperti dalle scienze erano in grado di introdurre un ordine anche nella sfera sociale, ordine suscettibile di essere formulato in termini esatti.
Il pluralismo del valori
Al summenzionato ideale platonico Berlin contrappone le concezioni di due filosofi che lo hanno profondamente influenzato, Vico e Herder, secondo i quali ogni società possiede una propria visione della realtà, e le visioni variano di volta in volta, passando da un assetto sociale a quello successivo. Non esiste, in altri termini, una scala ascendente che porti dagli antichi ai moderni. Non si tratta tanto di relativismo culturale e morale, quanto di pluralismo, secondo il quale sono molti e differenti i fini cui gli uomini possono aspirare, senza che vengano meno la razionalità e la capacità di comprendersi. E’ dunque il pluralismo dei valori a costituire il tratto distintivo della storia umana.
Da ciò segue che le “soluzioni finali” esistono soltanto nella mente dei filosofi, giacché lo studio della società mostra che ogni soluzione crea situazioni nuove le quali, a loro volta, generano nuovi bisogni, nuovi problemi e nuove domande.
Il filosofo inglese sa benissimo che il quadro da lui delineato può sembrare insipido se paragonato a quelli tracciati dagli utopisti. E tuttavia, rammentando che l’uomo è intrinsecamente fallibile, giudica di gran lunga preferibile ricorrere ai cosiddetti trade-offs, alle concessioni reciproche, piuttosto che avventurarsi sul pericoloso sentiero che conduce a stabilire una scala di valori assoluti.
L’umanesimo marxista
Berlin riconosce a Marx – e a Hegel – il merito di aver in fondo compreso che non esistono verità perenni, in quanto gli orizzonti umani mutano con il procedere dell’evoluzione storico-sociale. Ciò nonostante, Marx si fa comunque imprigionare dai sogni di perfezione terrena e di redenzione globale, ragion per cui egli finisce col postulare una vittoria finale della ragione, vittoria che avrebbe condotto a un’armoniosa collaborazione universale e all’inizio della “storia vera”.
Il marxismo può essere considerato, a tutti gli effetti, un umanesimo. Ma di che tipo è l’umanesimo marxista? Innanzitutto, esso può esser ritenuto tale perché è una concezione che pone al centro dei propri interessi l’uomo, riconoscendo in lui il bene supremo e cercando di stabilire le condizioni concrete affinché egli possa raggiungere la piena felicità.
Ma non è tutto. L’umanesimo marxista è di tipo radicale; è infatti lo stesso Marx ad affermare che la radice, per l’uomo, è l’uomo medesimo. L’uomo è per l’uomo l’essere supremo, e pertanto egli ha l’imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, abbandonato e spregevole. Se l’uomo è il bene supremo, allora la lotta per abolire i rapporti sociali che lo umiliano acquista preminenza rispetto ad ogni altro obiettivo.
Tuttavia, l’umanesimo marxista non è soltanto radicale, ma anche radicalmente autonomo giacché, non essendovi valori esterni e trascendenti l’uomo, la sua liberazione (e, di conseguenza, la sua felicità) non si potranno conseguire che restando all’interno del raggio d’azione specificamente umano. Mentre trasforma la realtà oggettiva, l’uomo crea il proprio mondo e influisce sul proprio sviluppo.
Se, dunque, ci poniamo la domanda fondamentale di ogni antropologia filosofica – che cos’è l’uomo? – in termini marxisti dovremmo rispondere nel modo seguente: l’essenza dell’uomo risiede nel lavoro umano, in quell’attività pratica che consiste nella trasformazione della realtà oggettiva. Trasformando tale realtà, l’uomo trasforma se stesso.
L’autocreazione dell’uomo
La categoria fondamentale dell’antropologia marxiana diventa dunque l’autocreazione in quanto, mutando le condizioni della propria esistenza, l’uomo muta se stesso e si autocrea. Ma non è difficile comprendere che, seguendo questo sentiero, si cade immediatamente in un’aporia che mina le basi stesse della concezione marxiana dell’uomo. Perché mai, infatti, i termini “mutamento” e “creazione” dovrebbero essere considerati equivalenti? Mutare qualcosa non significa “crearla”, bensì modificare una realtà preesistente, una realtà che gli esseri umani trovano, sotto il profilo ontologico, già data.
I marxisti non paiono mai rendersi conto della fallacia del loro ragionamento, preferendo sottolineare che il concepire l’autocreazione dell’uomo mediante il lavoro consente di negare tanto il teocentrismo quanto l’eteronomia che ad esso si ricollega. Riprendendo la formulazione di Gramsci secondo cui l’uomo è un processo, e precisamente il processo dei suoi atti, si aderisce senza esitare al credo riduzionista che esalta, da un lato, la persona umana come parte della natura, mentre dall’altro “scioglie” l’individuo nella società, rendendo gli atteggiamenti, le opinioni e i giudizi individuali semplici funzioni dei rapporti sociali.
Collocando l’essenza dell’uomo nel processo della produzione Marx e i suoi seguaci non negano il fatto che egli si differenzia dagli animali per molti aspetti della sua attività cosciente (si pensi, per fare un solo esempio, al linguaggio), ma fanno confluire tutti questi aspetti nella categoria – davvero onnicomprensiva – del lavoro produttivo. Ed è proprio l’aggettivo “tutti” a mettere in allarme. L’antropologia marxiana ritiene di aver fornito una risposta definitiva alla domanda “che cosa è l’uomo?”, e di conseguenza chiude la questione.
In tal senso, l’antropologia di Marx ha un carattere di chiusura, di definitività che non si riscontra nelle concezioni dell’uomo avanzate dal liberalismo e da altre scuole di pensiero. Ma, si noti bene, l’antropologia marxiana è chiusa sin dall’inizio: non vi è reale discrasia tra le opere giovanili e quelle della maturità. I germi del fallimento sono già contenuti nel pensiero del giovane Marx, e si trasmettono via via fino all’imponente edificio intellettuale contenuto ne Il Capitale.
La fine della storia
Il mondo nuovo, dunque, sarà il mondo creato dall’uomo nuovo, l’uomo socialista che assume sulle sue spalle il peso del proprio destino, cosciente del fatto che è lui, e soltanto lui, a creare il mondo, la società e la storia. E questo uomo nuovo non sarà, ovviamente, alienato, non sarà impacciato da legami non necessari ed estranei alla sua vera natura. Egli andrà incontro, fiducioso e ottimista, alla nuova storia, alla nuova società senza classi, giusta e perfetta. E la perfezione, si sa, non può essere negata da un’altra perfezione.
La “fine della storia”, un concetto che è oggi molto di moda, e che è stato divulgato da alcuni pensatori politici americani contemporanei i quali ritengono che la sconfitta del marxismo consenta l’affermazione della liberaldemocrazia a livello planetario (e quindi, per l’appunto, il termine dello sviluppo storico come si è finora manifestato), fu in realtà già formulato da Marx e ripreso fedelmente dai suoi seguaci.
È l’abolizione delle classi a decretare, in termini marxisti, la fine della storia e la creazione di un’umanità nuova che non avrà più bisogno di guerre né di sistemi sociali alienanti. Eppure, in entrambi i casi citati, noi notiamo che queste ottimistiche previsioni durano poco. Gli ultimi avvenimenti storici indicano che, nonostante la sconfitta del marxismo, la liberaldemocrazia non è padrona assoluta del campo: visioni del mondo ad essa antitetiche la minacciano. Allo stesso modo, il crollo dei regimi comunisti ha reso sin troppo evidente che l’edificio marxiano era stato costruito su basi molto fragili.
Si noti ancora che i marxisti, facendo proprio leva sull’obiettivo finale di una futura società perfetta e senza conflitti che dovrebbe determinare la fine della storia, presumono di aver individuato una risposta coerente a tutti gli interrogativi di fondo sollevati. I teorici di un marxismo non inteso in termini dogmatici riconoscono senza timore che anche le società socialiste presentano vari tipi di alienazione, ammettendo pertanto che l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione non causa la fine automatica dell’alienazione stessa.
Tuttavia, a loro avviso, in tutto ciò non v’è nulla di straordinario, dal momento che il marxismo prevede un periodo di transizione nel corso del quale l’organizzazione della società divisa in classi viene abolita gradualmente a causa delle “remore conservatrici” insite nella coscienza sociale. Detto periodo di transizione può durare molto a lungo, e il persistere dell’alienazione non deve quindi destare meraviglia.
Ma la fede nella soluzione finale resta intatta, e la creazione dell’uomo totalmente nuovo è rimandata a un futuro dai contorni quanto mai vaghi e indefiniti. La contraddizione tra il riconoscimento della presenza di alcune costanti della natura umana che impongono limiti invalicabili all’azione e la fiducia nella raggiungibilità della perfezione è, a questo punto, assai evidente per chiunque si accinga a leggere i testi di Marx senza il filtro di una fede preconcetta.
La divinizzazione dell’uomo
Come lo stesso Berlin rileva, è importante rammentare che le caratteristiche della filosofia di Marx prima illustrate non costituiscono un fenomeno isolato nel panorama del pensiero occidentale moderno e contemporaneo. La divinizzazione dell’uomo e il rifiuto delle domande fondamentali per il suo destino si possono ritrovare, fatte ovviamente le debite differenze, in altri autori e in altre tradizioni che almeno in apparenza sono incompatibili tra loro.
Un divieto simile a quello marxiano è contenuto negli scritti di Auguste Comte, padre del moderno positivismo, il quale respinge come “oziose” le obiezioni alle sue tesi. Una lirica esaltazione dell’onnipotenza dell’uomo contemporaneo, che fa della scienza naturale l’unico faro della propria vita, si può rinvenire nel famoso manifesto del Circolo di Vienna che riassume le concezioni del neopositivismo logico.
Soltanto negli ultimi decenni, in ambito epistemologico, l’esaltazione dell’onnipotenza della scienza è stata superata grazie a studiosi come Popper, Kuhn, Lakatos, Feyerabend e altri. Alcuni di essi – e in particolare Feyerabend – sostengono tesi criticabili, ma non v’è dubbio che il loro contributo alla demitizzazione del sapere scientifico sia stato di grande rilievo. I limiti della razionalità, concetto caro a Max Weber e ad altri esponenti del pensiero moderno, vengono del tutto ignorati. I limiti possono essere superati d’un balzo, mediante un puro sforzo della volontà.