L’arroganza dei tappi di plastica che non si staccano

Una metafora della stupidità del nostro tempo. A noi poveri pecoroni senza scampo hanno persino vietato di aprire una bibita nell’unico modo sensato

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Poche cose al mondo sono più arroganti di quelle linguette di plastica che trattengono i tappi delle bibite. A noi poveri autentici pecoroni senza scampo è persino vietato aprire una bibita nell’unico modo possibile: ruotando il tappo e togliendolo prima di versare il contenuto, per poi diligentemente rimetterlo a posto.

Chi, probabilmente facendo riferimento a qualche bizzarra disposizione europea, ha introdotto l’odiosa linguetta di plastica che trattiene il tappo in posizione inscindibilmente accessoria alla bottiglia, avrà inteso evitare l’inquinamento marino dai (dicono) tappi di plastica. Risultato? Ora oltre a buttare il solo tappo, chi è abituato a buttare a casaccio i rifiuti,  butterà nello stesso modo tappo e bottiglietta saldamente condannati allo stesso destino cinico e baro.

La quotidiana dose di stupidità industriale alla quale siamo ormai abituati è dunque questa. Guai a permettere al bastardo consumatore-inquinatore di separare il tappo! Lo si faccia, semmai, diventare scemo per aprire quel rivoluzionario tappino mediante un movimento innaturale di rotazione a due mani con il contemporaneo movimento a “flip” del pollice, per tenerlo fermo su un lato, altrimenti si verserà addosso il liquido o non riuscirà a versarlo.

L’effetto squeeze

Inutile fare ricorso ad una manovra più vigorosa, che preveda di afferrare la bottiglia a metà della sua altezza: essendo ormai la plastica sottile come un preservativo, si otterrebbe il famigerato effetto “squeeze”, con relativa violenta proiezione del liquido con gittata variabile dai trenta centimetri ai tre metri, resa, oltretutto, imprevedibile quanto a direzionalità dalla successiva manovra concitata per riprendere il controllo della fottuta bottiglia e, quel che è peggio, risolvendosi tale improvvido smanazzamento nel devastante effetto di mungitura della bottiglia, con le conseguenze che tutti conosciamo.

Provate a tenere una bottiglia di acqua minerale mezza piena con una sola mano: essa si ribellerà istantaneamente, assumendo, dapprima, la tipica forma a banana, per poi spostare il suo baricentro in modo bizzarro e del tutto random. Non appena la proiezione al suolo di detto baricentro avrà oltrepassato quella formata dalla base dell’osceno oggetto, il guaio si sarà compiuto proprio tra le nostre mani, come faticando a trattenere riluttanti pesci di grandi dimensioni.

Ma la statistica ci conferma che a dover gestire grossi pesci che rifiutano di finire nel cesto sono pressappoco i soli individui maschi dai 12 ai 75 anni e dotati di apposito retino per recuperare il guizzante animaletto finito a terra, mentre i bevitori da bottiglie di plastica, perlopiù al muso, si attestano intorno al 95 per cento della popolazione mondiale di ambo i sessi e senza essere dotati di attrezzatura alcuna di emergenza e recupero.

I tappi dei medicinali

Qualche precisino mi dirà, a questo punto, che anche per i flaconcini dei medicinali, già da anni, è prevista una manovra extra sul tappo, per impedire agli infanti di mettere alla loro portata i sempre più diffusi psicofarmaci, così come sugli accendini usa-e-getta, per far scattare la scintilla è necessario avere mani robuste, altrimenti non funzionano.

Ma erano scelte costruttive a tutela della nostra sicurezza, e giammai espressioni del desiderio di far finta di essere amici del Pianeta, più di quanto esso non si dimostri amico nostro. Impedire al bambino che gattona di calarsi giù un flaconcino di Xanax come se fossero Zigulì è un conto. Venirci a raccontare che sono proprio i tappi delle bottiglie in pvc ad inquinare il mondo è tutt’altro paio di maniche.

L’ipocrisia delle etichette “green”

Lo stesso principio valga per l’apposizione di etichette “green” che vorrebbero raccontarci la storiella di una fabbrica coi macchinari posti sui prati fioriti e nella quale la sostanza impiegata più tossica sia la camomilla, tra uno svolazzare di api felici e operai col cappellino di paglia.

Ma voglio fare ancora un distinguo: anche il dichiararsi “eco friendly” in etichetta e nella pubblicità è una scelta (peraltro brutalmente opportunistica e venale) che potrà piacere o meno, ma palesemente diretta ad avvicinare le masse a quel prodotto, col trascurabile effetto collaterale di allontanare quei pochissimi libertari infastiditi dalla non richiesta e per niente autorevole certificazione di un ecologismo che sembra persino rasentare il terrorismo nelle sue forme più eclatanti.

Vorrei vedere un’azienda che apponga ai suoi prodotti un’etichetta che dica “Noi sosteniamo Ultima Generazione”. Ecologisti a due velocità: rapidissimi a saltare sul cavallo, per ora vincente,  del prodotto “bio”, ma immobili, se non a marcia indietro, quando sempre più esaltati compiono soprusi penalmente rilevanti in nome di quei principi di rispetto per la Terra che leggiamo sulle etichette. A quelli, le magliette sponsorizzate non le date eh?

Su quest’ ultimo punto, semmai, verrebbe da chiedersi se sia eticamente accettabile pagare di più un prodotto auto-dichiaratosi “bio” e ciò accada in un momento storico di crescita costante ed intercontinentale della povertà tra la popolazione mondiale. Ma è un discorso che ci porterebbe lontano dalle semplici note semiserie racchiuse in queste righe.

Una logica arrogante

Ma la stupida linguetta che rimane attaccata al tappo, al pari di ogni altra farisaica trovata commerciale dello stesso stampo, è qualcosa che, di fatto, ci viene imposta. E non so nemmeno (non ho fatto ricerche) se tale imposizione sia contenuta in una legge che abbia tale dignità, secondo il principio di stretta legalità del quale ci stiamo sempre più scordando.

Io la vedo, pur nella sua quasi irrilevanza, come l’esemplificazione di un ragionamento arrogante, illogico e del tutto inefficace. Ma usa ormai così. Di questo passo verremo costretti a dotarci di distributori di carta igienica, debitamente piombati dalla Guardia di finanza che c’impediscano di farne spreco.

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