Le prime notizie d’agenzia sono di lunedì scorso 19 giugno. Il batiscafo (un piccolo sommergibile che, a differenza dei sottomarini, abbisogna di una nave-appoggio in superficie) denominato Titan di proprietà della compagnia commerciale statunitense di esplorazioni sottomarine Ocean Gate, è disperso nelle profondità dell’Oceano Atlantico.
La missione “Titanic Survey Expedition” prevedeva l’immersione fino a raggiungere il fondale ove giace l’immenso transatlantico omonimo, a 3800 metri sotto la superficie del mare, affondato nel 1912 a 380 miglia nautiche a sudest di Terranova, in Canada. A bordo del batiscafo, oltre all’unico pilota, quattro passeggeri paganti (oltre 250.000 dollari), tra i quali il miliardario-esploratore Hamish Harding, ingegnere e pilota abilitato ai voli di linea, noto per le sue imprese estreme, come quella che lo portò nello spazio col velivolo New Shepard di Jeff Bezos.
Le operazioni di soccorso
Dopo circa sette ore dall’inizio dell’immersione, il Titan non ha più comunicato coi mezzi in superficie ed è ora corsa contro il tempo per salvare la vita dei suoi occupanti, con le riserve d’aria che, a quanto pare, non potranno superare le 72 ore. Mentre scrivo queste note, il sito ufficiale della Ocean Gate ancora tace del tutto sull’incidente che rischia di trasformarsi in tragedia.
Alle operazioni di localizzazione e soccorso, stanno, ovviamente, partecipando numerosi mezzi si superficie e mezzi aerei americani e canadesi, ma, almeno finora, nessuna novità perviene dagli abissi oceanici.
Il prezzo del progresso
Premettendo di essere un convinto sostenitore dell’utilità di tutte le esplorazioni scientifiche in genere, anche quando derivi per puro caso da qualche elemento collaterale della missione, la domanda che tutti si pongono rimane semplice quanto annosa: vale la pena di correre certi rischi estremi? Dare una risposta a certi quesiti vecchi quanto l’uomo, non è affatto agevole.
Nelle grandi imprese v’è una più o meno prevedibile aliquota di rischio e, sicuramente, se si pensasse solo a quello, non avremmo mai costruito navi, né aerei e nemmeno avremmo mai potuto solcare le profondità marine e lo spazio.
La riferita utilità scientifica della missione Titanic 2023 della compagnia commerciale americana, come leggiamo dai loro siti, sarebbe, tra le altre, quella di studiare da vicino i processi di deterioramento dell’intera massa metallica del Titanic per opera di un batterio “mangia-ruggine”, che, a quanto sostengono quei ricercatori, potrebbe far letteralmente dissolvere quanto rimane, sul fondale, del transatlantico della White Star Line entro pochi anni.
Non ci addentreremo nelle contrastanti valutazioni scientifiche, che pure vengono pubblicate, sul rapporto costi-benefici di certe imprese di larga diffusione mediatica, con evidente ritorno commerciale a favore dei colossi dell’economia mondiale, per il motivo sopra esposto: anche dalla più strampalata missione di ricerca potrebbe derivarne una scoperta scientifica di grande interesse ed utilità per la collettività. Resta, tuttavia, il fatto che fintanto che non siano coinvolte vite umane (includendo quelle dei soccorritori tra queste) tutto può passare ed essere messo in conto ai prezzi da pagare per il progresso.
Troppo rischioso
In questo caso, comunque, qualche perplessità affiora, ahimè assai prima di quanto non abbia ancora fatto il batiscafo coi suoi passeggerei illesi. Se sia una buona idea far scendere a 3800 metri un mezzo progettato e costruito (attenendoci ai dati tecnici pubblicati dal costruttore) per operare fino ai 4000 sotto al livello del mare non sta a noi profani stabilirlo, ma soli 200 metri dal limite massimo dì immersione paiono davvero troppo pochi.
Come sanno anche i bambini, a quelle profondità estreme, il maggior nemico è l’immensa pressione che viene esercitata sulla superficie esterna del battello e sapendo che il piccolo sottomarino di soli sei metri di lunghezza ha uno scafo composto da un sottile strato di carbonio e titanio, tale “leggerezza totale” del mezzo potrebbe essere determinante in negativo.
Titanic e Bismarck
Quando il grande esploratore, geofisico ed oceanografo Robert Ballard, nel 1985 localizzò, primo al mondo, il relitto del Titanic, lo fece per mezzo di un allora sofisticatissimo mezzo telecomandato dalla sua nave-appoggio, fornendo al mondo le prime immagini ad alta risoluzione della grande nave adagiata sul fondo, adottando una tecnica che non fece correre alcun rischio agli operatori.
Non per niente, dopo solo quattro anni, nel 1989, lo stesso Ballard trovò sul fondale e percorse in lungo in largo col suo robot subacqueo il relitto della corazzata Bismarck, reclinato su un fianco all’ancora superiore profondità di 4791 metri. Quando uscirono (col patrocinio della National Geographic Society) i libri fotografici delle due straordinarie imprese di Ballard, li consumai letteralmente a forza di sfogliarli per cercare qualche particolare nelle grandi fotografie a colori che l’illustravano.
Ricordo un passaggio del testo: si trattava, a proposito della Bismarck, di decidere se entrare col piccolo robot fotografico all’interno della zona equipaggio della corazzata, approfittando di uno squarcio nello scafo che avrebbe facilmente consentito tale intrusione.
Robert Ballard, richiesto dal pilota in remoto del robot se poteva entrare nei locali dell’equipaggio, ricevette un rifiuto categorico: in quel punto della nave giacevano i resti di 1400 marinai affondati con la loro nave; non avrebbero dovuto profanare le loro tombe. Ma, pur parlando, tutto sommato, di pochi anni fa, era già un mondo diverso da questo e diversi erano pure i grandi esploratori dell’ignoto.
Esploratori per diletto
Perché, santo Dio, perché far correre il rischio di una morte orrenda a pur volontari e (stra)paganti esploratori per diletto, per di più esplorando, solo esternamente, un relitto di cui ormai si sa tutto, quando, coi mezzi odierni, potremmo fare meglio e con migliori risultati coi mezzi robotici? A voi le risposte, se ne avete.