Cultura

Le voci dei dissidenti della Guerra Fredda utili anche contro l’ideologia woke

La figura di Monica Lovinescu, un antidoto alla menzogna ufficiale. Una lezione importante anche per chi oggi rifiuta l’ideologia progressista e i diktat woke

Nicolae Ceausescu (Raidue) Il dittatore comunista rumeno Nicolae Ceausescu nel suo ultimo discorso pubblico

Gli europei occidentali tendono a dimenticare l’immensa posta in gioco, politica e morale, della Guerra Fredda. Pubblicazioni essenziali, inizialmente sostenute dal Congress for Cultural Freedom, come “Encounter”, “Tempo presente”, “Der Monat” e “Quadrant”, sono ormai quasi dimenticate. Eppure, queste riviste e i loro autori, da Arthur Koestler a Czesław Miłosz, da Melvin J. Lasky a Nicola Chiaromonte, così come le stazioni radio occidentali, hanno permesso agli abitanti del blocco sovietico di respirare al di sotto della glaciazione totalitaria.

Oggi, che una nuova “cortina di ferro” separa l’Europa dalla Russia, mentre le società aperte assistono all’ascesa o al consolidamento di potenze autoritarie o teocratiche, è più che mai necessario ricordare coloro che combatterono per smascherare le menzogne della propaganda e riaffermare la dignità umana.

Monica Lovinescu

Tra le più importanti figure del pensiero antitotalitario risalta quella di Monica Lovinescu, critica letteraria e giornalista residente a Parigi che, dai microfoni di Radio Free Europe (RFE), incoraggiò la resistenza intellettuale al regime comunista rumeno.

Figlia dell’influente accademico Eugen Lovinescu e di Ecaterina Bălăcioiu, che sarebbe morta in una prigione comunista, Monica Lovinescu godette di un enorme prestigio e di una notevole influenza nella sua nativa Romania. Un’intera generazione di dissidenti l’ha considerata un modello morale e intellettuale. Il suo lavoro fece arrabbiare a tal punto il dittatore Nicolae Ceausescu, che quest’ultimo tentò di farla assassinare nella sua casa in Francia. Nel 1977, infatti, la Lovinescu subì un pestaggio da parte di alcuni uomini della Securitate che la lasciò in coma per alcuni mesi.

Dopo essersi rimessa dall’aggressione, tornò immediatamente al suo posto, dietro ai microfoni di Radio Free Europe, da cui raccontò, dieci anni dopo, la caduta del regime.

Monica Lovinescu, per decenni, insieme con suo marito Virgil Ierunca, ha combattuto contro il collettivismo, il terrore poliziesco, l’irregimentazione della mente e la capitolazione morale di fronte alle ingiustizie. Il suo patriottismo era illuminato e generoso. Gli intellettuali romeni, grazie a lei, hanno potuto conoscere gli scritti di Camus, Arendt, Kołakowski, Orwell, Solženicyn, Koestler, Miłosz, Revel, Aron – un elenco troppo breve, se paragonato alla vastità dei suoi interventi.

Spirito totalmente dedito alla modernità, aperto alle polemiche cruciali del XX secolo, Lovinescu ha scritto saggi toccanti su quello che il critico americano Lionel Trilling ha definito “il pericoloso incrocio dove Arte e Politica si incontrano”.

Antidoto alla menzogna

Il suo impegno racchiudeva tutto ciò che i nemici della libertà odiano: pluralismo, tolleranza, ostilità al nazionalismo ottuso, compassione per le vittime di entrambi i totalitarismi (nazista e comunista) e impegno per una memoria non selettiva.

Le sue trasmissioni per RFE erano un vero e proprio antidoto alla menzogna ufficiale, una voce di verità che parlava a coloro che erano condannati al silenzio. Durante l’anno spartiacque del 1968, la Lovinescu prestò molta attenzione alla crisi ideologica del comunismo mondiale e all’importanza del disincanto tra gli intellettuali marxisti. In un momento storico in cui Ceausescu si mascherava da “destalinizzatore”, svelò l’impostura del tiranno e fece appello agli scrittori rumeni affinché non cadessero nel tranello.

Lovinescu e suo marito Ierunca hanno sottolineato l’importanza dell’indagine storica per la demolizione della pseudo-legittimità comunista. Ha scritto ampiamente sull’importanza dell’apostasia, che ha descritto come la “via maestra” verso il risveglio da quello che Immanuel Kant chiamava “sonno dogmatico”.

Oltre a sottolineare la necessità che la cultura rumena evitasse l’autarchia e il provincialismo, propose linee guida notevoli, capaci d’influenzare in modo decisivo il canone intellettuale del Paese.

L’oblio

Dopo il 1990, Lovinescu e Ierunca videro avverarsi molte delle loro previsioni, comprese quelle più terribili: l’oblio dei crimini, la chiusura degli archivi di Stato, il riciclo degli ex sgherri del regime nelle nuove istituzioni democratiche. Le eredità del nazional-stalinismo continuano a tormentare il fragile pluralismo della Romania e dell’Europa centro-orientale.

I libri di Monica Lovinescu, pubblicati dalla prestigiosa casa editrice romena Humanitas e in Francia dalle Éditions Gallimard, non hanno mai trovato un editore in Italia. Un’assenza che non sorprende se si considera che il mondo letterario italiano è stato egemonizzato dai comunisti, che hanno fatto cadere i loro anatemi persino su opere fondamentali come “Arcipelago Gulag” o “1984”.

In uno dei suo libri, intitolato Seismograme (“sismogrammi” in italiano), scrisse:

Non solo la vittima doveva essere distrutta mentalmente, ma la memoria della vittima doveva scomparire. I Paesi veramente totalitari non hanno il lusso del cimitero e della memoria. Idealmente, una persona inghiottita da un campo di concentramento o da una prigione totalitaria non solo scompare, ma non è mai esistita.

Un destino che, sebbene più sottilmente, anche le società democratiche possono riservare alle voci dissidenti rispetto agli establishment culturali consolidati. La riflessione e l’esempio della Lovinescu non sono importanti solo per coloro che sono perseguitati o detenuti senza diritto in Russia, Bielorussia o Cina, ma anche per quanti, in Occidente, rifiutano di celebrare l’ideologia “progressista” ufficiale e i grotteschi diktat accademici “woke”. La dissidente rumena ha incarnato la sopravvivenza della verità e dell’onore in tempi di turpitudine morale.

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