Anche se da più di un mese a questa parte le vetrine e le vie sono illuminate a festa, ad un marziano che capitasse sulla terra sarebbe difficile capire bene cosa si festeggia. Gli auguri si limitano quasi sempre ad un generico “Buone feste” che di per sé non dice nulla, e pochissimi pronunciano o scrivono la parola “Natale” nei loro messaggi (pubblicitari e non), mentre praticamente nessuno dice che ciò che si festeggia è la nascita di Cristo, quasi che questo evento, decisivo per la nostra civiltà (ci limitiamo qui ad un discorso “secolare”, anche se ovviamente per il cristiano esso va oltre a questo aspetto), sia destinato quasi a rinsecchirsi, chiudendosi in un recinto confessionale sempre più ristretto e sempre meno importante per la collettività sociale.
Una eredità aperta
Eppure poche solennità come il Natale cristiano esprimono quella che è l’eredità culturale millenaria sulla quale si fonda la civiltà occidentale. Una eredità non ristretta, come cercheremo di illustrare brevemente in questo scritto, ad una particolare religione, ma estesa e aperta a tutti coloro che la vogliono fare propria. E poche rotture nella tradizione sono così gravi come quella che porta a bypassare il significato non solo religioso, ma anche, per quanto ci interessa qui, quello sociale e culturale del Natale.
In tal modo, ancora una volta sotto la spinta della cultura woke, si rischia di privare di significato un avvenimento fondamentale per comprendere la tradizione sociale e civile dell’Occidente, un fatto reale e storico, anche se esso, per la sua origine ritenuta trascendente e quindi non conoscibile appieno dalla comprensione umana, è stato spesso descritto in maniera che potremmo definire “mitologica” e “simbolica”: si pensi alla stessa celebrazione della nascita di Cristo il 25 dicembre, giorno della festa pagana del solstizio di inverno e della celebrazione del “nuovo sole” che porta luce, ritenuto simbolo della luce spirituale portata da Cristo.
Il Natale nel Vangelo di Giovanni
Del resto gli stessi Vangeli, in particolare quello di Matteo e quello di Luca, si servono in parte di racconti di tipo mitologico, tratti dalla tradizione biblica per descrivere il “miracolo” della nascita di Gesù. Si potrebbe parlare molto di questi racconti e della forma di verità in essi contenuta, una verità non materiale e “cronachistica” ma trascendente e spirituale, ma ai fini del nostro discorso sulla eredità culturale del Natale è preferibile partire dalla descrizione più “filosofica”, ma anche più “diretta” della incarnazione di Cristo che è contenuta nel Vangelo di Giovanni.
Il quarto Vangelo in effetti ha sempre esercitato un fascino particolare sulla riflessione filosofica e morale, e da molti è stato studiato e analizzato come una delle espressioni più profonde della verità sia divina che umana; forse il brano letterario più celebre in materia è stato scritto da Johann Wolfgang Goethe (1749 – 1832), il grande poeta tedesco.
All’inizio del poema a cui dà il titolo (versetti 1210 e seguenti), Faust, studioso sazio di nozioni e di conoscenze che non hanno soddisfatto la sua sete di verità, si accinge a cercare quest’ultima traducendo il Vangelo di Giovanni e si affatica a lungo sulla sua prima frase: “In principio era il Verbo”, cercando di rendere la parola greca “Lògos”, in maniera più appropriata rispetto al termine “Verbo”.
Lasciamo Faust (ma su di lui torneremo) per sottolineare due affermazioni anch’esse contenute nel prologo del quarto Vangelo (capitolo 1 – vers. 14): “Il Verbo si è fatto carne …. e noi abbiamo visto la sua gloria”. In queste due frasette sono racchiusi non solo il centro della religione cristiana, ma anche (cosa che riguarda in particolare un discorso “secolare” quale vuole essere quello presente) due modi di accostarsi alla conoscenza e ai valori morali, due modi i quali sono diventati nei secoli le basi fondamentali dei rapporti sociali e politici (nel senso più nobile del termine) della civiltà occidentale e che oggi purtroppo sono in pericolo.
La fede e l’esperienza
Vediamo di spiegarci meglio. Il testo di Giovanni ci indica in effetti due modi di conoscere e di valutare la realtà umana legati tra loro, che rappresentano in sostanza il fondamento di ogni conoscenza e di ogni giudizio di morale e sociale: le fede (la prima frase) in valori e realtà superiori (il Verbo divino) alla volontà umana, e l’esperienza (la seconda frase) come guida decisiva per la conoscenza di questi valori superiori “incarnati” nella realtà concreta.
Su di essi si è da sempre basata la cultura occidentale e ancora oggi, sia pure in forma secolarizzata (anche se ovviamente nulla impedisce di mantenerli legati a principi religiosi) questi due principi rappresentano il fondamento della civiltà liberal-democratica, che si basa sul rispetto dei diritti individuali, sul potere limitato dello stato e sul principio democratico rappresentativo, e che dal cristianesimo è derivata.
Già i teologi medievali erano legati in maniera decisiva all’esperienza: si pensi che la Summa Theologiae di San Tommaso d’Aquino (ca. 1225 – 1274) è impostata come una serie di “questioni” a cui il grande filosofo dà risposta dopo avere analizzato le concrete ed empiriche opinioni dei diversi autori, ed una delle affermazioni più ricorrenti di quell’epoca era che i principi che regolano la conoscenza e la morale sarebbero comunque validi “anche se Dio non ci fosse”, una visione delle cose che nella nostra epoca secolarizzata consente di unire credenti di diverse religioni e non credenti intorno ad alcuni valori fondamentali comuni relativi alla vita sociale e politica.
Due soluzioni
Oggi si parla molto spesso (giustamente) dei problemi della società multiculturale e delle difficoltà di tenere insieme concezioni del mondo e della vita sociale e politica molto diverse, ma la storia può esserci di aiuto. Nel XVII secolo l’Occidente visse una fase molto simile a causa delle guerre di religione seguite alla Riforma protestante, guerre determinate da una serie di concezioni religiose e sociali cristiane in radicale contrasto tra loro.
In quell’epoca si delinearono due soluzioni diverse, proposte da due pensatori inglesi vissuti a poco più di una generazione di distanza. Il primo Thomas Hobbes (1588 – 1679) propose la soluzione autoritaria che sfociò poi, soprattutto nel Continente europeo negli stati assoluti: tutte le decisioni, compresa l’appartenenza religiosa dovevano essere lasciate al sovrano assoluto, chiamato con il nome del mostro biblico “Leviatano”, unico legittimato a portare la pace e la concordia in mezzo a tante opinioni discordanti.
Il secondo John Locke (1632 – 1704) invece fece appello ai valori comuni ai cristiani delle diverse chiese, sfrondati delle differenze confessionali, valori da credersi per fede, ma conoscibili attraverso l’esperienza e la riflessione razionale, e su tali basi teorizzò lo stato a potere limitato, democratico e rispettoso dei diritti individuali, cioè lo stato liberale in senso forte che si affermò prima nella stessa Inghilterra e poi soprattutto negli Stati Uniti d’America.
Il culto distorto della ragione
Nell’epoca contemporanea, spesso in chiara polemica con la religione, si è sviluppata una concezione del pensiero razionale di tipo essenzialmente astratto e totalmente staccato dall’esperienza, che ha portato a credere in verità o create a tavolino ipotizzando un mondo ideale (come fu il pensiero giacobino) oppure derivanti da interpretazioni parziali e orientate della storia (come fu il marxismo), e questo culto distorto della ragione ha portato molti a dimenticare che la tradizione liberale e democratica occidentale si basa su quel legame tra la fede nei valori superiori (“naturali” per usare il termine riferito dai giuristi ai diritti individuali) e l’esperienza “incarnata” degli stessi che abbiamo cercato di descrivere.
In un libro di qualche anno fa il giurista e opinionista americano Alan Dershowitz, aiutato in questo dalla sua esperienza professionale di avvocato, un libro intitolato “Rights from Wrongs” (titolo mantenuto anche nella traduzione italiana) esprimeva da un punto di vista secolare la sua fiducia (la sua fede) in una serie di principi giuridici liberal democratici validi fino a prova contraria derivanti dall’esperienza e basati sulla correzione degli errori commessi in passato soprattutto dai regimi totalitari.
In questa combinazione di fede ed esperienza, in cui affondano le radici “sane” del liberalismo occidentale – riguardo al quale segnalo un altro testo molto interessante, purtroppo non tradotto in italiano, “The theological origins of liberalism” dello studioso turco operante in America İsmail Kurun – possiamo ritrovare l’eredità culturale fondamentale del Natale.
Quella stessa combinazione di fede ed esperienza che l’autore del Vangelo di Giovanni riferì all’incarnazione del Verbo divino, e sulla quale ancora oggi possiamo contare come base per una conoscenza ed un dialogo razionali, riferiti a valori culturali condivisi (di origine cristiana, ma comuni a tutti, quali sono ad esempio quelli che affermano l’eguaglianza tra gli esseri umani) che possono tenere unita la società anche di fronte alla sfide della diversità culturale.
La perdita di fede
Il venir meno della fiducia, della fede in tali valori comuni rischia invece di stravolgere la stessa identità delle società occidentali e quale sia il reale pericolo di tale perdita di fede ce lo suggerisce in fondo ancora Goethe (di cui non mi ero dimenticato).
Faust alla fine del poema com’è noto si salverà grazie alla sua esperienza e all’aiuto dall’alto, ma probabilmente non è casuale che durante il suo inutile arrovellarsi nella traduzione del Vangelo di Giovanni, forse un modo per volere anteporre le proprie idee alla esperienza di fede, gli compare davanti Mefistofele, simbolo dello spirito negativo, che in seguito gli proporrà il famoso patto avente per oggetto la sua anima.
Qualcosa di mefistofelico in effetti è presente nelle concezioni oggi diffuse che portano a negare, spesso con compiacimento, il valore di tutto ciò che la tradizione cristiana occidentale ha portato con sé, compreso lo stesso uso della parola “Natale” cui abbiamo accennato all’inizio.
L’eredità del Natale
Ma questo spirito negativo, che rifiuta i valori che l’esperienza filtrata e rafforzata da secoli di errori ha consolidato e reso cardini della nostra civiltà, può portare solo a conflitti tra visioni opposte, un destino a cui secondo molti la società multiculturale è inevitabilmente destinata, una situazione che (bene che vada) avrebbe bisogno di un nuovo Leviatano (tecnocratico e politicamente corretto) per assicurare la pace sociale.
L’alternativa è però possibile ed è già in parte presente: troppo spesso da questa parte dell’Atlantico si esagera l’importanza della cancel culture americana, molto diffusa, ma non decisiva, se è vero che nemmeno le università della Ivy League, i registi e gli attori di Hollywood e le più o meno famose popstars, quasi tutti allineati sul pensiero politicamente corretto, sono riusciti ad eliminare i valori civili e politici di origine cristiana comuni degli americani.
Valori che fanno degli Stati Uniti (nonostante tutti i loro difetti) pur sempre un “melting pot” dove le diverse etnie e culture si fondono a livello di vita pubblica, pur mantenendo le loro diversità nella sfera privata, e non una società multiculturale segnata dai conflitti, quei valori nei quali (come le recenti elezioni hanno dimostrato) i primi a riconoscersi sono proprio gli immigrati anche se provenienti da culture non cristiane.
I principi civili e politici propri della società liberale e democratica, fondati sulla fede basata sull’esperienza, le due fonti della conoscenza indicate 2000 anni fa dall’autore del quarto Vangelo rappresentano (a parere di chi scrive) l’eredità “secolare” più autentica del Natale, la quale da noi sta diventando una sorta di eredità “giacente” che rischia di andare perduta a causa dell’ideologia negativa della cultura woke, e che però aspetta pur sempre di essere raccolta (mi si consenta di chiudere con una espressione tipica natalizia) dagli “uomini di buona volontà” che, a prescindere dalla loro convinzioni religiose credono che tali valori debbano essere portati avanti.