Nell’epoca contemporanea, dove le discussioni sui confini, fisici e culturali, sono più accese che mai, emerge la figura intellettuale di Frank Furedi, sociologo britannico di origine ungherese, che con le sue tesi audaci e provocatorie ha acceso un dibattito vibrante su scala globale.
Furedi, noto per la sua prosa incisiva e il pensiero controcorrente, sostiene con vigore l’importanza di mantenere e rispettare i confini come baluardo della libertà individuale e collettiva, opponendosi fermamente all’intervento terapeutico dello Stato nella vita dei cittadini.
Confini e autodeterminazione
Le frontiere, che tradizionalmente fungevano da strumenti per delimitare la sovranità e l’autonomia di una comunità, diventano motivo di contesa. La difesa dei confini, fisici o simbolici, viene vista come una risposta all’incertezza e all’instabilità contemporanea. Secondo Furedi, i confini non sono semplici linee tracciate su una mappa o barriere culturali da abbattere, ma rappresentano i fondamenti della nostra identità e autonomia.
In un mondo sempre più globalizzato, dove le frontiere sembrano dissolversi in nome di una presunta maggiore libertà, Furedi avverte del pericolo di perdere il senso di appartenenza e il controllo sulla nostra stessa esistenza.
I confini fisici, secondo il sociologo ungherese, non sono solo difese territoriali, ma simboli concreti della sovranità nazionale e della capacità di una comunità di autodeterminarsi. La loro erosione, spesso giustificata da argomentazioni umanitarie, rischia di trasformare le nazioni in entità vulnerabili, incapaci di proteggere i propri cittadini e favorire il mantenimento di un ordine sociale stabile.
La cultura “terapeutica”
La demolizione del concetto stesso di confine, poi, rende gli individui più indifesi, aprendo le porte a quella che lo stesso Faredi chiama “cultura terapeutica” dello stato interventista. Difatti, la dissoluzione dell’identità culturale delle diverse comunità nazionali porta con sé la psicologizzazione della vita sociale.
I problemi sociali vengono sempre più interpretati attraverso una lente psicologica o medica, spingendo gli individui a vedere i loro disagi come traumi o patologie da curare. Questa trasformazione ha conseguenze importanti: l’apparente depoliticizzazione dei problemi sociali, dove i conflitti o le disuguaglianze, che un tempo venivano affrontati come questioni politiche o economiche, vengono oggi ridotti a questioni individuali da trattare in terapia; e la conseguente “terapeutizzazione” della politica, dove i leader politici tendono a usare un linguaggio empatico e terapeutico per affrontare i problemi sociali, spostando il focus dal dibattito razionale e collettivo al comfort emotivo.
I danni del vittimismo
Furedi critica la crescente enfasi sulla vulnerabilità umana, che, secondo lui, incoraggia le persone a vedersi come vittime delle circostanze. Questa retorica punta in realtà a intaccare l’autonomia personale e il senso di responsabilità individuale. La cultura terapeutica, pur proponendosi come un mezzo per aiutare le persone a guarire, finisce in realtà per incoraggiarle a dipendere da esperti e istituzioni per risolvere i propri problemi.
Un effetto della cultura terapeutica è l’impatto negativo sulle relazioni umane. La tendenza a definire le dinamiche personali attraverso il linguaggio della psicologia (come “relazioni tossiche” o “traumi relazionali”) porta poi a un’introspezione eccessiva e a un senso di alienazione. Secondo Furedi, questa tendenza erode il senso di comunità e la capacità delle persone di costruire rapporti duraturi e significativi, sia nell’ambito familiare che in quegli ambiti più allargati cui Tocqueville si riferiva con il concetto di società civile e corpi intermedi.
L’intrusione dello Stato
Frank Furedi critica aspramente l’espansione dell’influenza statale e istituzionale nella sfera privata, che egli considera una minaccia fondamentale alla libertà individuale. Lo Stato moderno si è progressivamente intrufolato in spazi tradizionalmente considerati privati, come le famiglie e le relazioni personali.
Le politiche pubbliche, spesso giustificate dalla necessità di proteggere o promuovere il benessere, tendono a minare la capacità delle persone di gestire autonomamente le proprie vite. L’invasione dello spazio privato avviene spesso sotto il pretesto della sicurezza o della prevenzione di danni. Ad esempio, il monitoraggio delle abitudini alimentari, delle relazioni familiari o persino delle emozioni dei cittadini viene spesso presentato come un modo per migliorare la salute e il benessere pubblico.
Tuttavia, ciò comporta una perdita di autonomia e una dipendenza crescente dalle autorità. Uno dei risultati più insidiosi dell’invasione dello spazio privato è la distruzione della fiducia tra individui. Quando le istituzioni assumono il ruolo di arbitri in questioni personali e finanche emotive, riducono la capacità delle persone di negoziare e risolvere i conflitti da sole. Questo indebolisce il tessuto sociale e favorisce una cultura di sospetto reciproco a tutto vantaggio dello stato paternalista.
La società della paura
Il crescente intervento statale nella vita privata è altresì legato alla diffusione della cosiddetta “cultura della paura”, di cui l’eco-fondamentalismo e la costante minaccia pandemica sono probabilmente i casi più eclatanti. Le istituzioni spingono i cittadini a vedere il mondo come intrinsecamente pericoloso, promuovendo misure intrusive come necessarie per proteggere i più vulnerabili. Questo processo, però, crea una società sempre più ansiosa e conformista. Furedi ci invita, invece, a riscoprire il valore dell’autonomia personale e del senso di responsabilità comunitaria.
In definitiva, la libertà e il progresso sociale non possono esistere senza frontiere chiare, che non sono strumenti di esclusione, ma elementi che danno significato e identità. Il rifiuto di una cultura terapeutica che limita la capacità delle persone di agire autonomamente è essenziale difesa contro l’intrusione dello stato nella sfera privata – spazio fondamentale per la libertà e la creatività individuale. Il lavoro di Faredi rappresenta dunque un appello per una società meno dipendente e più consapevole delle proprie capacità di autogestione.