Cultura

L’indice delle parole proibite: ecco tecniche e trucchi della neolingua woke

Da “signore e signori” a “carta bianca”, passando per “padroneggiare”, tutte le espressioni che un collettivo woke di Stanford (California) vorrebbe cancellare

Cultura

Nel corso della storia, la definizione di un corpus linguistico ha sempre avuto un’importanza capitale. Spesso, la redazione dei primi dizionari ha rappresentato un momento fondamentale nella storia di un Paese e della sua cultura. E di solito, i termini che si è scelto di escludere, di lasciare fuori dalla lista, sono stati, in un certo senso, più rilevanti di quelli inclusi.

Non turbare la narrazione

È una dinamica in fin dei conti simile a quella per cui, tendenzialmente, i testi inseriti nel famoso Indice dei libri proibiti ci dicono molte più cose, e di maggiore interesse, sull’epoca in questione, rispetto a quelli che venivano lasciati liberi di circolare.

In altre parole, i libri che nel pieno Seicento della Controriforma la Chiesa permetteva che venissero fruiti anche dai lettori meno accorti non erano necessariamente quelli che riteneva migliori —o meglio esemplificativi del suo pensiero—, ma quelli che reputava innocui. Insomma, si permette libera circolazione solo a chi non arreca la minima minaccia di turbare la narrazione corrente, a prescindere dai suoi meriti intrinsechi, come direbbero i critici di formazione gramsciana.

Il processo di esclusione

Ma non temete, non ho intenzione di tediarvi con delle lunghe riflessioni di natura storica e filosofica. Anzi, partiremo immediatamente in medias res con un evento recente che ci permetterà di dare uno sguardo molto approfondito su che cosa realmente sia la woke culture, di cui già ci siamo occupati su queste pagine.

Avrei a cuore, tuttavia, che teneste ben presenti questi concetti che abbiamo appena definito: l’importanza del processo di esclusione come momento fondante di una data realtà ossia; ciò che non siamo e non vogliamo, ciò che non diciamo e non leggiamo, ci definisce spesso meglio di ciò che siamo, che vogliamo, che diciamo e che leggiamo.

“Iniziativa per l’eliminazione del linguaggio lesivo”

Dunque, i fatti risalgono a pochi giorni prima di Natale, quando è divenuto di pubblico dominio come l’Università di Stanford in California, una delle istituzioni migliori al mondo, classifiche alla mano, abbia pensato bene di redigere un indice delle parole proibite. So che molto probabilmente potreste pensare che si tratti di un’espressione melodrammatica, di una di quelle iperboli che si usano sui giornali per attirare l’attenzione, ma in effetti è esattamente ciò che è stato fatto – o, meglio, che si è tentato di fare.

Il tutto è trapelato grazie a Justine Moore, di Andreessen Horowitz, che ha diffuso l’elenco completo di “brutte parole”. In effetti, l’operazione ha un nome decisamente più accattivante di “Indice delle parole proibite”: Eliminating Harmful Language Initiative (EHLI), ossia “Iniziativa per l’eliminazione del linguaggio lesivo”.

Le tecniche utilizzate

I creatori del progetto sono individuabili all’interno del dipartimento informatico dell’università, e lo stesso è parte della più ampia “spinta antirazzista” promossa da Stanford a partire da maggio 2020. In particolare, l’elenco è stato redatto da un collettivo noto come People of Color in Technology (POC-IT), e ciò che risalta in modo più evidente sono le tecniche utilizzate.

I membri del collettivo hanno infatti effettuato diverse “scansioni” dei file presenti e condivisi su pagine e indirizzi mail con domini universitari per individuare le parole ritenute “dannose”, “nocive” o “potenzialmente pericolose”. Queste parole, terribili e da eliminare, includono “carta bianca”, “lui” e “lei”, solo per dare dei primi esempi.

In un primo momento, risulta che siano sette i domini web sottoposti a scansione, in una sorta di fase pilota per testare il processo di ricezione, analisi e trattamento dei risultati della scansione stessa. Terminata questa fase, nel maggio del 2022, il POC-IT ha stilato la sua lista.

Immediatamente, l’ha sottoposta agli organi decisionali dell’università, proponendone un’applicazione pervasiva: la richiesta è stata quella di procedere a una scansione di tutti i domini, siti, caselle di posta elettronica, database dei test e degli esami di tutta la Stanford University —qualsiasi cosa, insomma, con totale disprezzo di ogni diritto di privacy.

Obiettivo censura

Lo scopo dichiarato, determinare con precisione non solo dove e come venga utilizzato il linguaggio lesivo precedentemente identificato, ma soprattutto da chi. L’obiettivo finale, poi, è stato posto in modo particolarmente “inclusivo” – termine da me usato con sfumatura volutamente ironica: “aiutare gli individui e i dipartimenti a eliminare il linguaggio lesivo che potrebbe perpetuare stereotipi, disuguaglianze, violenza e razzismo”.

Tradotto in termini concreti e realistici, significa espungere parola per parola i termini banditi, identificare le persone che ne fanno uso più o meno frequente, e applicare nei loro confronti delle potenziali restrizioni, in modo da impedire che possano continuare a diffondere un tale tipo di linguaggio, così pericoloso – in modo non diverso da quanto avviene sui social media come Facebook.

Progetto nascosto

Durante l’estate, tutti i progetti hanno subito dei rallentamenti fisiologici, ma al riprendere del semestre autunnale, il POC-IT è tornato alla carica con la sua iniziativa. L’Università ha deciso inizialmente di appoggiarlo, lanciando online una pagina ufficiale dell’EHLI, sulla quale veniva illustrato il progetto.

Le reazioni, tuttavia, non sono state esattamente quelle sperate, tanto che, dopo alcuni giorni in cui il tutto era divenuto una sorta di zimbello, oggetto di continui sfottò online, Stanford ha pensato bene di rimuovere la pagina dal proprio sito web pubblico, per spostarla nell’area riservata interna al college.

In effetti – siamo ormai in dicembre inoltrato – il progetto non è stato accantonato, ma soltanto nascosto al pubblico generale, per il momento.

Non sappiamo come si evolverà l’intera storia, ma, prima e piuttosto che proporvi delle interpretazioni, voglio lasciare che siate voi stessi a leggere in prima persona degli ampi stralci del documento in questione, così che possiate formarvi autonomamente un’idea.

Nessuna parodia

Quella che segue è quindi una lista, purtroppo non completa, per via da un lato delle dimensioni – vi assicuro molto importanti del documento, in perfetto stile togliattiano -, dall’altro perché molti dei termini sono specificamente legati alla lingua inglese e al gergo statunitense in modo così complesso da spiegare, che renderebbe davvero difficile comprendere il ragionamento mentale che sta dietro alla volontà di cancellare il termine stesso.

Niente di ciò che leggerete è una parodia, anche se mi rendo conto che vi potrebbe sembrare mi sia inventato qualcosa per prendere in giro i woke. Non è così: ho preso le parole/frasi bandite, le rispettive alternative suggerite dal sito di Stanford com’era l’ultimo giorno in cui è stato accessibile al pubblico, e ho tradotto il tutto fedelmente.

Ci ritroveremo alla fine, per tirare un minimo le fila e fare qualche riflessione insieme, dato che credo che di spunti ve ne siano, soprattutto per quanto riguarda le tecniche adottate dai propositori (potete inviare i vostri suggerimenti di parole dannose alle bravissime persone dell’EHLI a questo indirizzo e-mail: [email protected]).

Sezione 1. Abilismo

Il linguaggio abilista è un linguaggio offensivo nei confronti delle persone con disabilità e/o che svaluta le persone con disabilità.

  • tossicodipendente“, usare invece: “persona con un disturbo da uso di sostanze”. Contesto: l’uso di un linguaggio incentrato sulla persona aiuta a non definire le persone in base a una sola delle loro caratteristiche.
  • studio in cieco” e invece usare: “studio mascherato”. Contesto: perpetua involontariamente l’idea che la disabilità sia in qualche modo anormale o negativa, favorendo una cultura abilista.
  • storpio“, usare invece: “disabile, persona con disabilità”. Contesto: linguaggio abilista che banalizza le esperienze delle persone con disabilità.

Sezione 2 e 3. Linguaggio colonialista

Il colonialismo è la politica o la pratica di acquisire il controllo politico totale o parziale di un altro Paese, occuparlo con coloni e sfruttarlo economicamente. È meglio evitare i termini che derivano dal colonialismo.

La cultural appropriation è il prendere parti di un’altra cultura e farne uso nel nostro quotidiano. Il linguaggio che fa appropriazione culturale utilizza in modo improprio termini che hanno un significato per una particolare cultura, in un modo che spesso manca di rispetto o di apprezzamento.

  • seppellire l’ascia di guerra” e invece usare: “chiedere la pace, chiedere una tregua”. Contesto: l’uso di questo termine è un’appropriazione culturale di una tradizione secolare di alcune popolazioni indigene del Nord America, che seppellivano gli strumenti di guerra come simbolo di pace.
  • capo“, invece usare: “il nome della persona”. Contesto: chiamare una persona non indigena “capo” banalizza sia i capi ereditari che quelli eletti nelle comunità indigene.
  • guru“, invece usare: “esperto, esperto in materia di, maestro, leader, insegnante, guida”. Contesto: nelle tradizioni buddista e induista, questa parola è un segno di rispetto. L’uso disinvolto ne annulla il valore originario.
  • sul piede di guerra“, invece usare: “pronto all’offensiva”. Contesto: appropriazione culturale di un termine che indicava il percorso seguito dalle popolazioni indigene in direzione di una battaglia con un nemico.
  • Pocahontas“, invece si usa: “il nome della persona cui ci si rivolge”. Contesto: si tratta di un insulto e non dovrebbe essere usato per rivolgersi a una donna indigena, a meno che non sia il suo vero nome.

Sezione 4. Linguaggio “Gender-Based

Il linguaggio basato sul genere comprende una serie di parole e frasi che non sono utili e, in molti casi, risultano escludenti. Ad alcune persone può non dispiacere che il termine o i termini vengano applicati a loro o addirittura preferiscono che vengano usati. Tuttavia, è sempre preferibile chiedere a una persona come vuole che le ci si rivolga, prima di fare supposizioni”.

  • deputato/deputata” | invece usare: “deputatə, legislatorə”. Contesto: raggruppa un gruppo di persone usando un linguaggio binario di genere, che non include tuttə.

Nota segue una lista di professioni (es. dottore/dottoressa > dottorə, professore/professoressa > professorə, tutti con la motivazione precedente).

  • signore e signori“, invece usare: “tuttə”. Contesto: raggruppa un gruppo di persone in gruppi binari di genere, che non includono tuttə.
  • lui“, “lei” invece di usare: “nome della persona o “loro”. Contesto: a meno che non si sappia che la persona a cui ci si rivolge usa “lui” o “lei” come pronome di elezione, è meglio usare “loro” o chiedere alla persona quale pronome usa.
  • transessuale (a meno che non sia usato a livello medico)”. | utilizzare invece: “persona transgender, trans o non conforme al genere”. Contesto: questo termine è stato storicamente usato come un insulto contro le persone Lgbtq+. Tuttavia, alcuni membri della comunità si identificano e si autodescrivono con questo termine.

Sezione 4. Linguaggio impreciso

  • ispanico“, invece usare: “Latinx, usare il paese di origine”. Contesto: sebbene sia ampiamente utilizzato per descrivere persone provenienti da paesi di lingua spagnola al di fuori della Spagna, le sue radici risalgono alla colonizzazione spagnola dei Paesi del Sud America. Invece di riferirsi a qualcuno come ispanico a causa del suo nome o del suo aspetto, chiedetegli innanzitutto come si identifica.
  • persone di colore (usato genericamente)”, invece usare: “BIPOC (Black, Indigenous, and People of Color)”. Contesto: se si parla di un gruppo specifico, nominarlo.
  • vittima“, invece utilizzare: “persona che ha vissuto…, persona che è stata colpita da….” Contesto: l’uso di un linguaggio incentrato sulla persona aiuta a non definire le persone in base a una sola delle loro esperienze. Se la persona si identifica con il termine, allora usatelo.

Sezione 5. Razzismo istituzionalizzato

Il razzismo istituzionalizzato è un razzismo incorporato nelle leggi e nelle norme di una società o di un’organizzazione. Può essere visto nei processi, negli atteggiamenti e nei comportamenti attraverso espressioni che denotano pregiudizio, ignoranza, scarsa considerazione e stereotipi razzisti.

  • pecora nera (riferito a una persona)”, invece usare: “reietto”. Contesto: assegna una connotazione negativa al colore nero, razzializzando il termine.
  • carta bianca”, invece usare: “ Totale discrezionalità nell’operare”. Contesto: parlare di carta bianca in questo senso porta ad associare mentalmente il colore bianco ad un qualcosa di migliore, veicolando così concetti potenzialmente razzisti.
  • ghetto“, invece usare: “usa il nome del quartiere”. Contesto: il termine indica qualsiasi quartiere non bianco socialmente segregato.
  • padroneggiare“, invece usare: “diventare abile in”. Contesto: storicamente, i padroni schiavizzavano le persone, non le consideravano umane e non permettevano loro di esprimere il libero arbitrio, quindi questo termine dovrebbe essere generalmente evitato.
  • webmaster, web master”, invece utilizzare: “web product owner”. Contesto: storicamente, i padroni schiavizzavano le persone, non le consideravano umane e non permettevano loro di esprimere il libero arbitrio, quindi questo termine dovrebbe essere generalmente evitato.

Sezione 6. Linguaggio person-first

L’uso di un linguaggio incentrato sulla persona aiuta tutti a non definire gli altri in base a una singola caratteristica o esperienza, se la persona in questione non desidera essere definita in quel modo. Ad alcune persone può non dispiacere che il termine o i termini vengano applicati a loro o addirittura preferiscono che vengano usati. È sempre preferibile chiedere a una persona come vuole essere definita, invece di fare supposizioni.

  • galeotto, carcerato“, invece usare: “persona che è/è stata incarcerata”.
  • immigrato” e invece usare: “persona immigrata, non cittadina”.
  • prostituta“; utilizzare invece: “persona che si dedica al lavoro sessuale”.

Contesto: l’uso di un linguaggio incentrato sulla persona aiuta a non definire le persone in base a una sola delle loro caratteristiche.

Sezione 7. Linguaggio violento

Il linguaggio violento è spesso usato con disinvoltura e senza cattive intenzioni. Spesso, però, comporta immagini che possono turbare il destinatario di tale linguaggio. Raccomandiamo di usare alternative non violente quando possibile.

  • una brutta gatta da pelare”,  invece usare: “compito difficile da portare a termine”. Contesto: questa espressione normalizza la violenza contro gli animali.

Sezione 8. Ulteriori considerazioni

Si tratta di termini che non rientrano nelle altre categorie, ma che sono comunque abbastanza importanti da attirare l’attenzione su di loro.

  • afro-americano” e invece usare: “nero”. Contesto: le persone di colore nate negli Stati Uniti possono interpretare il trattino come “alterazione” della loro identità. Come per molti dei termini che stiamo evidenziando, alcune persone preferiscono usare o essere indirizzate con questo termine, quindi è meglio chiedere a una persona quale termine preferisce sia usato quando ci si rivolge a lei. Quando si usa per riferirsi a una persona, la “b” deve essere sempre maiuscola.
  • gitano” invece usare: “romaní (se si riferisce a una persona di origine romaní) o imbrogliare (se si riferisce a qualcuno che è di origine sinti)”. Contesto: questo termine si riallaccia a “zingaro” e perpetra lo stereotipo secondo cui le persone di etnia rom sono dei ladri e/o truffatori.
  • persona normale“; si usa invece: “persona comune, convenzionale”. Contesto: questa frase porta ad “alterare” le persone non bianche e quelle che vivono con disabilità, disturbi mentali o malattie, considerandole non integre o regolari.
  • prostituzione intellettuale”, invece usare: “svilimento”. Contesto: mette inutilmente in relazione scopi corrotti o indegni con il lavoro sessuale.

La tattica woke

Una volta arrivati alla fine di questa lista, non credo ci sia molto da aggiungere, se la si è letta con attenzione. Tuttavia, ritengo che una cosa importante da sottolineare sia la tattica utilizzata da chi porta avanti tali istanze. Come possiamo vedere da questo esempio, infatti, si tende a partire da un piccolo nucleo di concetti tutto sommato condivisibili, dietro ai quali trincerarsi – sempre che questo termine, che ci riporta alla mente conflitti come la Grande Guerra, possa essere ritenuto accettabile.

Cerco di spiegarmi meglio: credo che nessuno possa mettere in dubbio che una piccola percentuale dei termini sopra inclusi possa essere considerata oggettivamente offensiva, e infatti non viene solitamente vista come una parte normale di quello che dovrebbe essere un civile modo di relazionarsi. Non so francamente a chi possa venire in mente che non sia offensivo rivolgersi a una persona nativa americana chiamandola “Pocahontas”, o a un disabile apostrofandolo “storpio”.

E tuttavia, si parte da questi termini come scusa per proscrivere una pletora di parole e di espressioni che risultano quasi ridicole nelle spiegazioni addotte per giustificarne la messa al bando.

Categorie strumentalizzate

In effetti, una certa ilarità è stata la reazione spontanea di fronte a questa iniziativa, in modo comprensibile, ma che non ci deve portare ad accantonarla come semplice ridicolaggine di nessun conto. È infatti un perfetto esempio del modus operandi della cultura woke, che, con la scusa di difendere alcune categorie, non fa altro che strumentalizzarle per portare avanti campagne potenzialmente liberticide e oppressive.

Ed è proprio per questo che occorre, a mio parere, esercitare una grande attenzione nel relazionarsi a tali iniziative, premurandosi di non lasciarsi condizionare eccessivamente. I gruppi promotori, infatti, non aspettano altro che reazioni sguaiate per poter cavalcare l’onda, quando, in realtà, nessuna delle critiche da portare a tali operazioni di censura linguistica e culturale sono – o dovrebbero essere fondate – su un desiderio di offendere senza alcun ritegno.

Determinati a sentirsi offesi

In definitiva, occorrerebbe mantenersi in equilibrio tra due diverse consapevolezze: quella che non esiste un ipotetico diritto di offendere in modo gratuito e fine a se stesso, ma neppure quello di non essere mai offesi da nulla e da nessuno per nessun motivo.

A questo proposito, a nulla servirà sforzarsi oltre modo di seguire pedissequamente le stesse istruzioni contenute nel presente indice, o in qualunque altro dovesse venire redatto, dal momento che chi porta avanti battaglie del genere non sarà mai soddisfatto dei risultati e si sentirà solo autorizzato a rincarare la dose.

In definitiva, dobbiamo tenere a mente quanto diceva in merito alla questione il compianto Christopher Hitchens: se le persone sono determinate a sentirsi offese, non c’è nulla che si possa fare. Troveranno comunque il modo di esserlo, e di rinfacciarlo al prossimo.

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