Niente per caso: l’epopea dei piloti da circo americani

Una storia vera, in un’epoca dove tutto era più semplice, genuino, affidato all’abilità e al coraggio dei suoi protagonisti, ma nella quale nulla accadeva per caso

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C’e un bellissimo libro, scritto da Richard Bach, autore, fra l’altro del celeberrimo “Il gabbiano Jonathan Livingston”, che, a mio parere, andrebbe letto da tutti. Parlo del romanzo “Niente per caso”, pubblicato in prima edizione nel 1969 e tradotto in molte lingue, tra cui l’italiano.

Come in tutti i libri di Bach, si parla di aerei, ma nel modo romantico e quasi filosofico, che caratterizza il suo stile narrativo. Già l’incipit ci fa capire che non si parlerà soltanto di velivoli storici dal punto di vista tecnico, ma che il libro sarà una splendida cavalcata in quegli anni Sessanta degli Stati Uniti, quando dei pazzi, coi loro aerei non propriamente di ultima generazione già a quel tempo, si divertivano a girare per l’immenso territorio americano per esibirsi nel “Grande Circo Volante Americano”.

Parlavamo dell’incipit del libro; esso dice così: “Se stai attento, mente ed occhi bene aperti, troverai un significato preciso in molte cose, che altrimenti attribuiresti al caso”. Chi è abituato a vedere il mondo dall’alto, facendosi egli stesso parte del cielo, è naturalmente incline a porsi quelle domande che soltanto il distacco fisico dalla rassicurante terraferma può far percepire, ed è un po’ la stessa cosa che capita ai naviganti, quando, girando la testa a trecentosessanta gradi, vedono soltanto il mare che li ospita.

Grandi motori in grandi spazi

Per capire bene il clima in cui si svolge la vicenda di “Niente per caso”, bisogna proiettarsi idealmente nell’enorme provincia americana del Dopoguerra, coi suoi pick-up Chevrolet dai grandi parafanghi arrotondati, i motel con le insegne al neon coloratissime, i jeans un po’ bassi in vita e le immancabili camicie a quadri degli ultimi cowboys che facevano parte loro stessi di un paesaggio fatto di grandi strade asfaltate tracciate in linea retta trasversalmente alle ampie pianure semidesertiche dell’interno degli States.

Lungo quelle highways, sorgevano, un po’ a casaccio, villaggi e piccole città in cui la vita era semplice e resa confortevole da un sostanziale diffuso benessere. Era l’epoca dei grandi motori dalle cilindrate impossibili, della benzina che costava quasi niente, del formidabile sviluppo economico che non conosceva altro limite che la grandi distanze coast to coast, ormai ampiamente colmate dall’uso, sempre più diffuso e popolare, dei mezzi aerei di ogni dimensione.

La guerra era finita da ormai almeno dieci anni e tutto, negli Usa, lasciava presagire un lungo periodo di pace e sviluppo economico e sociale. Le autoradio a bordo delle Cadillac e di quelle Plymouth bicolori dalle ampie code appuntite riempivano l’aria di musica country trasmessa dalle innumerevoli stazioni radio locali, rigorosamente in onde medie. Erano così tante le stazioni radio, tutte contraddistinte da sigle che iniziavano con la lettera “K”, da sovrapporre, non senza qualche fischio, musica e commercials all’interno di quegli abitacoli ampissimi dai larghi sedili in pelle colorata, facendo brillare al sole cromature e cerchioni di quelle enormi macchine, particolari indicativi del lusso un po’ sguaiato di un’epoca in cui tutto quanto fosse grande e vistoso pareva alla portata di ogni americano.

Piloti da circo

Nel periodo tra la fine degli anni Cinquanta e fino alla metà dei Sessanta, si diffuse uno strana disciplina, a metà tra lo sport e l’intrattenimento popolare, unica nel suo genere, che lo stesso Bach descrive benissimo nel suo libro.

Si trattava di questo: un gruppetto di piloti, molti dei quali da poco congedati dalla U.S. Air Force, acquistava, al prezzo di un’auto di lusso, un piccolo aeroplano da turismo, magari un po’ vecchiotto e da rimettere a posto, ma sicuramente semplice ed affidabile e, con quello, iniziavano a girare per gli stati centrali dell’America, esibendosi anche nei più piccoli villaggi con spericolate manovre acrobatiche ed offrendo agli abitanti un giretto di pochi minuti sopra le loro case al prezzo di pochi dollari. Niente assicurazione, niente avvertenze pre-volo (se non quella di non sporgersi e di tenersi forte alla maniglia del passeggero) e nessun abbigliamento particolare nemmeno per gli aerei a cabina aperta. Allora si volava con il giubbotto di pelle, gli occhialoni e i capelli al vento.

Non erano certamente previsti grandi guadagni (parliamo di tre/quattro dollari per qualche minuto di volo), ma bastavano a pagare la benzina avio, che si trovava facilmente presso le centinaia di campi di volo che sorgevano ai margini di ogni villaggio, la maggior parte dei quali con la pista in erba. Pagata la benzina e l’olio motore (del quale i grandi motori stellari dai grandi cilindri esterni erano particolarmente avidi), il resto era pura avventura. Non si volava con un piano di volo e men che mai sotto sorveglianza del più vicino centro di controllo, anzi, non si usava nemmeno la radio. Si andava a vista, al massimo scambiandosi qualche gesto quando si volava affiancati con due o tre piccoli aerei, e il bello stava anche in quel modo, un po’ insolente e scapestrato, di volare.

Liberi come il vento, come cavalli di razza mai completamente domi. Da un paese all’altro, prendendo per riferimento le scritte recanti i nomi dei villaggi che campeggiavano sui grandi serbatoi dell’acqua potabile, si dava un’occhiata alla carta Jeppesen, giusto per vedere se si rischiasse di rimanere a secco di carburante prima di raggiungere il prossimo piccolo aeroporto e via… verso un nuovo grandioso spettacolo, magari offerto a sole trenta persone, ma cosa importava? Si volava, e solo questo, alla fine, contava.

Certo, tanta improvvisazione comportava qualche conseguenza spiacevole, come una gamba del carrello piegata in un atterraggio troppo ruvido o uno strappo vistoso nella copertura in tela verniciata delle ali, ma si trovava sempre la soluzione chiamando dal telefono pubblico del villaggio più vicino, raggiunto in autostop, qualche amico meccanico che potesse dare una mano.

“Non c’è il caso cieco ma un principio che cerca di farci capire, mille ‘coincidenze’ e amici che vengono a mostrarci la via quando i problemi sembrano troppo difficili per essere risolti da soli”, scrive Bach nel suo bel libro.

E, comunque, quei piloti mezzi matti sapevano che l’avventura del Grande Circo Volante Americano doveva finire in quella stessa estate, quando sarebbe stato il momento di tornare a casa e riprendere ciascuno le proprie occupazioni. Provate ad immaginare quell’atmosfera rarefatta e profumata di fieno maturo e di olio che trafilava dai motori ancora caldi, col silenzio che scendeva sulla campagna, dopo l’ultimo volo, al calare dell’oscurità, quando anche l’ultimo passeggero pagante si era allontanato col suo caracollante furgoncino Ford e già si pensava a quelli del giorno seguente.

Fatti i conti del misero guadagno della giornata, Bach e i suoi amici s’incamminavano verso le più vicine case in legno, poco distanti dall’aeroporto, per andare consumare un sandwich o una bistecca, bere un paio di birre per poi tornare ai loro aerei, assicurati al suolo con delle corde, nel caso fosse arrivato un temporale estivo. Finalmente, era giunto il momento di riposare nei sacchi a pelo, sdraiati sotto le ali degli aerei, per ripararsi dalla rugiada notturna e dalla pioggia, che poteva arrivare da un’ora all’altra. L’indomani, a giorno fatto, si decollava verso una nuova meta, scelta a caso dopo un breve volo in una direzione qualsiasi scelta la sera prima, poco prima di addormentarsi.

La squadriglia di Bach

Nel caso dell’autore di “Niente per caso”, la squadriglia acrobatica era composta di due soli aeroplani, uno pilotato dallo stesso e l’altro dal grande amico Paul Hansen, e vi era pure un passeggero, il giovane Stu, che si esibiva in lanci col paracadute dopo essere rimasto per qualche tempo in equilibrio sulle ali del velivolo del suo amico.

Quella del silenzioso e coraggioso Stu è una figura che potrebbe sembrare secondaria, ma che riserverà una sorpresa ai lettori alla fine del libro, che non voglio svelare per non privarvi del piacere di leggerlo. La più sofisticata strumentazione utilizzata prima del lancio col paracadute? Un sasso legato ad un lungo nastro colorato, per capire, o meglio, intuire forza e direzione del vento. Altrettanto semplice uno dei pezzi forti del Grande Circo Volante Americano: raccogliere con la punta dell’ala un fazzoletto posto su un bastone a un metro da terra. Roba da fare accapponare la pelle, considerati i rischi di quella manovra. Ma non per quei ragazzi, che poi tanto ragazzi non erano, considerando che avevano fatto la guerra e che avevano moglie e figli.

Quella raccontata da Bach è una storia più che vera e sappiamo che fu una pratica condivisa da molti altri piloti americani, in un’epoca dove tutto era più semplice, genuino, affidato esclusivamente all’abilità ed al coraggio dei suoi protagonisti, ma nella quale nulla accadeva per caso.

Richard “Dick” Bach scampò miracolosamente a gravissimo un incidente aereo mentre, all’età di 76 anni, era al posto di pilotaggio del suo monomotore, dopo aver urtato contro una linea elettrica in fase di atterraggio, ed è tuttora vivente.

Tratto dal libro “Storie del mare e del cielo” di Roberto Ezio Pozzo (Ind. Publ. 2023) acquistabile qui.

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